Dalla “Nato obsoleta” ai rapporti con la Russia, dal “muro” messicano al protezionismo: l’analisi di Marco Respinti
Tra poche ore Donald Trump diventerà ufficialmente il 45° presidente degli Stati Uniti, segnando una svolta a 360 gradi nella guida della prima potenza economica e militare mondiale. Pochi passaggi di consegne alla Casa Bianca sono stati più all’insegna della discontinuità di quello che si prospetta tra Barack Obama e il tycoon newyorkese: due personalità assai diverse, cui corrisponderanno scenari politici mondiali altrettanto diversi.
Com’era prevedibile, tutti gli occhi dell’opinione pubblica globale sono puntanti sulla politica estera di Trump, la cui parola chiave sembrerebbe essere “isolazionismo”. La realtà dei fatti è però più complessa, come spiega a ZENIT, Marco Respinti. Dopo aver passato in rassegna gli otto anni di Obama, da lui giudicati fallimentari, il giornalista e saggista milanese, esperto di storia, politica e letteratura anglosassone, prende in esame le sfide che attendono Trump e ne trae conclusioni tutt’altro che scontate.
Sembrerebbe proprio che il nuovo inquilino della Casa Bianca voglia puntare su un triplice isolazionismo: geopolitico (disimpegno militare, specie in Medioriente), migratorio (muro ai confini con il Messico, ecc.), economico (dazi alle imprese che delocalizzano). È corretta o riduttiva questa interpretazione?
Le etichette sono riduttive sempre, ma il punto è che “isolazionismo” (come “populismo”) è diventata una parola passepartout nulla. Negli Stati Uniti è un fenomeno culturale e storico preciso. Si chiamò così l’opposizione alla Prima Guerra Mondiale (1914-1918), che mondiale lo divenne proprio quando il democratico Woodrow Wilson (1856-1924) vi trascinò gli Stati Uniti. Nel 1919 fu assegnato pure a lui il Nobel per la Pace, ma in quello che sino ad allora era stato solo un conflitto europeo, Wilson entrò, senz’alcun interesse nazionale americano, per mettere fine all’impero austro-ungarico, il “nemico reazionario”. L’isolazionismo tornò alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale (1939-1945) quando un altro presidente democratico, Franklin D. Roosevelt (1882-1945), mascherò la propria intenzione soggettiva globalista con la necessità oggettiva di fermare la minaccia totale di Adolf Hitler (1889-1945). Fuori da questi precisi contesti storici, non esiste però una “filosofia dell’isolazionismo”; esistono invece indirizzi politico-culturali progressisti o conservatori, esiste cioè il colonialismo ideologico opposto all’interesse nazionale. Tra l’altro scappa un po’ da ridere perché, quando otto anni fa venne eletto Obama, si parlò d’isolazionismo anche per lui. Si trattava di una equazione: siccome i presidenti di destra sono “guerrafondai”, il nuovo presidente di sinistra doveva essere diverso. Ma la storia racconta il contrario. Il coinvolgimento nella Guerra del Vietnam (1955-1975) fu opera dei democratici John F. Kennedy (1917-1963) e Lyndon B. Johnson (1908-1973), e soprattutto lo fu il modo maldestro in cui la cosa avvenne, mentre a chiudere la partita fu il repubblicano Richard M. Nixon (1913-1994) dopo l’inevitabile escalation (una volta in guerra, le guerre bisogna vincerle); il modo altrettanto maldestro con cui lo fece, è opera del suo Segretario di Stato, Henry Kissinger, non esattamente un conservatore. Ugualmente, nell’inutile, anzi dannosa guerra in Libia del 2011 gli Stati Uniti ce li hanno portati Obama e il suo Segretario di Stato Hillary Clinton. E le guerre in Afghanistan e Iraq? Bisogna dare atto al presidente repubblicano George W. Bush Jr. di averle volute solo come operazioni antiterrorismo di sicurezza nazionale.
Cosa ha inteso dire Trump, quando ha parlato di una “NATO obsoleta”?
Ora, il punto è che Trump ha intenzione d’invertire la rotta rispetto agli ultimi otto anni. Quando, sul piano geopolitico, Trump dice che la NATO così com’è è obsoleta, è difficile dargli torto. La NATO nacque per uno scopo preciso (la difesa dell’Occidente dall’Unione Sovietica) che oggi non esiste più. Ciò non significa affatto rinunciare alla difesa dell’Occidente: significa solo rimodellarla sulle esigenze attuali. Tra l’altro, dire ai membri della NATO che è ora che essi partecipino per intero alle spese di mantenimento non mi sembra un peccato mortale. Nella linea Trump c’è insomma più voglia di riforma che di smantellamento. Quanto al Medioriente, vedremo: comunque a Washington, alla vigilia del voto, assicurò a Benjamin Netanyahu che, se eletto, avrebbe riconosciuto Gerusalemme capitale d’Israele.
Uno dei capi d’accusa più ricorrenti contro il nuovo presidente americano: è uno xenofobo che costruirà muri…
Sull’immigrazione, Trump non costruirà il muro di confine con il Messico: ci ha infatti già pensato Bill Clinton nel 1994 e i Democratici ne hanno poi sempre votato rafforzamenti e ampliamenti. Certamente Trump vuole porre fine alla criminalità che, anche a seguito di una immigrazione clandestina incontrollata, avvelena, droga e insanguina le città americane; se penserà di rafforzare la barriera fisica con il Messico che già in gran parte esiste, non farà insomma che seguire le orme del marito della sua diretta rivale alla Casa Bianca. Del resto, nessuno dice che tra il 2009 e il 2015 l’Amministrazione Obama ha “deportato” più di 2 milioni e mezzo d’immigrati illegali, record assoluto per qualsiasi presidente della storia americana.
Si è parlato di un protezionismo economico “antiglobalista” nelle politiche di Trump: in cosa consisterà?
Il protezionismo genera di solito conflitti e persino guerre; non è una bella cosa. Ma è del tutto evidente che se la delocalizzazione e la globalizzazione, così come sono state gestite finora, comportano soltanto sperequazioni a favore di Paesi come lo stesso Messico o la Cina, che poi mettono in ginocchio il lavoro statunitense, un leader qualcosa la deve pur fare. Al World Economic Forum di Davos abbiamo visto Xi Jiping, leader neopostcomunista della Cina illiberale e repressiva, tessere le lodi del “liberismo” e della globalizzazione, e il ministro italiano dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ineditamente antieuropeista, smorzare i toni sui “populismi”…
L’aspetto più interessante e indubbiamente rivoluzionario del programma di Trump è senz’altro la sua politica estera filorussa. Davvero sarà possibile un disgelo così rapido con Mosca, dopo quello che è accaduto negli ultimi tre anni, dalla crisi ucraina fino all’espulsione dei diplomatici russi? Quali sono, in tal senso, le reali mire del nuovo presidente americano?
È giusto, a questo punto, che riveli di non essere affatto un sostenitore acritico di Trump. Il Partito Repubblicano americano aveva e ha uomini ben migliori ma la presidenza è toccata a lui. Soddisfattissimo per la sconfitta della Clinton, che sarebbe stata un Obama al quadrato e in peggio (con tanto di palese, enorme corruzione documentata da dettagliati libri mai confutati), osservo – da osservatore pluridecennale dello scenario politico-culturale statunitense – le mosse di Trump una per una. Non sono nemmeno un cantore di “Putin salvatore della patria”: la democrazia vera in Russia è ancora un miraggio, la libertà economica non esiste, il divario tra ricchi e poveri è insostenibile, la corruzione è profonda, la libertà religiosa calpestata (da cattolico, comunque estimatore della tradizione orientale, ricordo quante sofferenze l’ortodossia abbia inflitto e infligga ai cattolici) e noto che gli oppositori politici di Putin hanno il vizio di voler morire nel proprio letto… Con queste premesse, non so se Trump sia filorusso. Del resto, ogni motivo di conciliazione tra Russia e Stati Uniti va salutato con favore. A un patto, però: che non comporti sconti al dirigismo, all’assolutismo e all’antioccidentalismo putiniano (e delle forze ideologiche nazionaliste e/o eurasiste che lo circondano, lo lusingano o lo coccolano), né il sacrificio di Paesi terzi sull’altare di una nuova, assurda Jalta.
Intervista a Marco Respinti
Da “Zenit” del 20 gennaio 2017. Foto da Zenit