Da “La nuova Bussola quotidiana” del 25 gennaio 2017. Foto da Wallstreet Italia
Quando Barack Obama divenne presidente degli Stati Uniti d’America, otto anni fa, la sua prima azione di governo fu cancellare completamente l’era di George W. Bush Jr. cancellandone 200 misure legislative. Cominciò il 23 gennaio 2009 togliendo il divieto di finanziare con fondi federali sia le lobby internazionali che praticano o promuovono l’aborto all’estero sia quelle che premono per contrastarne le restrizioni deciso nel 1984 dal presidente Ronald Reagan e confermato senza soluzioni di continuità dal presidente George Bush Sr. nel 1988. Revocato dal presidente Bill Clinton il 22 gennaio 1993, il divieto era stato reintrodotto da Bush Jr. il 22 gennaio 2001; oggi, il presidente Donald J. Trump torna finalmente a negare quei denari insanguinati.
Il provvedimento fa parte del secondo “lotto” di iniziative prese dal nuovo inquilino della Casa Bianca dopo essersi ufficialmente insediato il 20 gennaio. Il primo, che porta la data dello stesso Inauguration Day, è stato un colpo all’“Obamacare”, la più ideologica delle misure volute dal suo predecessore che, dietro la carità pelosa della “sanità per tutti”, ha spinto al massimo l’imposizione del “controllo delle nascite” (contraccezione, aborto e sterilizzazione) dichiarando guerra alle coscienze e alla libertà religiosa, oltre ad avere reso i cittadini più dipendenti dallo Stato e più poveri per effetto della levitazione enorme dei costi assicurativi. L’ordine esecutivo di Trump (sostanzialmente un decreto-legge) non ha il potere di cancellare la riforma obamiana, giacché l’attività legislativa spetta al Congresso, ma, nei termini consentiti dalla legge ovvero sfruttandone anfratti, clausole e falle, rivendica il diritto di spuntarne quanto più possibile l’arma sinora più acuminata: l’obbligatorietà. Un buon inizio.
Dopo avere eliminato le sezioni più ideologiche del sito Internet della Casa Bianca (LGBT, Cambiamento climatico e Sanità), il secondo “lotto” di misure trumpiane, datato 23 gennaio, ne ha varate tre. La prima è il ritiro degli Stati Uniti dal TPP, la Trans Pacific Partnership, ovvero l’area di libero scambio tra 11 Paesi che si affacciano sul Pacifico (tra cui Giappone, Australia, Vietnam, Canada e Messico) teatro di circa il 40% del commercio mondiale. Obama ci si è speso molto e a lungo, ma per Trump è solo l’ennesima penalizzazione della manifattura americana, sacrificata sull’altare della delocalizzazione. Non ancora il “protezionismo” temuto da molti, comunque. La Casa Bianca punta infatti a sostituire subito il TPP con accordi bilaterali siglati Paese per Paese in nome di una “globalizzazione” non ripudiata a prescindere, ma ripensata profondamente.
Di mezzo c’è del resto la Cina, il “grande nemico” degli Stati Uniti dell’ora presente, la ragione principale delle prove di riavvicinamento di Trump alla Russia di Vladimir Putin. Se infatti qualcuno descrive l’uscita dal TPP come un inspiegabile regalo fatto dall’Amministrazione Trump al governo di Pechino, avversario dell’accordo giacché completamente escluso dai suoi assetti (era questa la risposta di Obama alle accuse di acquiescenza alla Cina), è vero piuttosto il contrario. Perché fuori dai vincoli internazionali che gli avrebbe imposto il TPP (per esempio se quella partnership internazionale avesse assunto verso Pechino orientamenti opposti a quelli voluti da Trump), ora Washington può negoziare direttamente i termini commerciali anche con la Cina accusata di dumping e di manipolazione verso il basso del tasso di cambio a favore delle proprie esportazioni. Certo, visto che il TPP non è ancora stato ratificato dal Congresso si tratta di un gesto più che altro simbolico, ma è di simboli che vive l’immaginario umano.
La seconda misura sancita il 23 gennaio è stata il congelamento delle assunzioni pubbliche, a eccezione del personale militare, da leggere come l’inizio della cura dimagrante dell’apparato federale (che noi chiameremmo statale) a partire dalla burocrazia. E la terza decisione è stato appunto un primo alt all’aborto, ovvero la reintroduzione della “Mexico City Policy”, cosiddetta poiché Reagan ne annunciò l’adozione durante la Conferenza internazionale dell’ONU sulla popolazione svoltasi nella capitale messicana dal 6 al 14 agosto 1984, Bollata dagli oppositori come “global gag rule”, “legge bavaglio”, fu l’implementazione di quanto stabilito dall’“Helms Amendment” al Foreign Assistance Act del 1961, allorché nel 1973 il deputato Repubblicano conservatore Jesse A. Helms (1921-2008), battista, riuscì a impedire che le Ong attive all’estero beneficiate dagli aiuti esteri americani usassero quei fondi per promuovere e operare aborti, anche se nel Paese straniero in cui esse operano l’aborto è consentito dalla legge. L’“Helms Amendment” fu poi affiancato dall’“Hyde Amendment” con cui nel 1976 (ma entrò in vigore solo nel 1980 quando la Corte Suprema ne stabilì la costituzionalità) il deputato Repubblicano conservatore Henry J. Hyde (1924-2007), cattolico, riuscì a imporre lo stesso divieto sul territorio nazionale. Il primo è legge permanente degli Stati Uniti, difficilmente modificabile, mentre il secondo una misura legata alla legge finanziaria annuale che dunque dev’essere reintrodotta ogni anno. Un altro buon inizio trumpiano, insomma: una tradizione di tutti i presidenti Repubblicani che anche Trump ha voluto fare propria, un “atto dovuto” che se fosse mancato avrebbe scatenato la rivolta. Il card. Timothy M. Dolan, l’arcivescovo di New York già presidente della Conferenze episcopale degli Stati Uniti (USCCB) fiero avversario della lotta ai princìpi non negoziabili scatenata da Obama e ora a capo del comitato della USCCB per le attività pro-life, ha plaudito in pubblico. Ora tocca ai numerosi altri impegni assunti da Trump a difesa dei “princìpi non negoziabili”, tra cui quella libertà religiosa che negli Stati Uniti di oggi passa anche dalla questione cruciale dello smantellamento dell’“Obamacare”.
Venerdì 27 gennaio a Washington si svolgerà la 44a Marcia nazionale per la Vita, uno dei momenti clou con cui il Paese reale americano, cristiano e conservatore, si mostra al mondo. Oltre al card. Dolan, prenderà la parola anche Kellyanne Conway, sondaggista e stratega Repubblicana, cattolica, voluta da Trump come manager della propria campagna elettorale e ora “Counselor to the President”. Il proscenio più importante e bello del mondo sarà suo per confermare la road-map della riscossa trumpiana.
Marco Respinti