Da “Libero” del 26 gennaio 2017. Foto da Time
Egitto ed Emirati Arabi Uniti fanno pressione su Washington affinché i Fratelli Musulmani entrino nella lista delle organizzazioni terroristiche del Dipartimento di Stato americano.
E Donald Trump – come risulta al New York Times – starebbe valutando un ordine esecutivo per chiedere al segretario di Stato di valutare l’ ipotesi.
Ci vuole coraggio, però, per una mossa che comporta un ribaltamento totale di prospettiva. Sin dai tempi di Bill Clinton, ma anche con George W. Bush, gli islamisti radicali erano diventati habitué alle cene per l’ iftar – il termine del mese di ramadan – presso la Casa Bianca, le ambasciate e i consolati statunitensi, ma la svolta era avvenuta con la presidenza di Barack Obama. Con il suo discorso del 6 aprile 2009 all’ università del Cairo, nel quale si impegnava «a combattere contro gli stereotipi negativi nei confronti dell’ islam», era cambiato anche il quadro delle alleanze internazionali degli Stati Uniti.
Per il presidente egiziano Hosni Mubarak suonava come un avviso di licenziamento dopo tanti anni di collaborazione politica e militare in Medio Oriente. Per i Fratelli Musulmani rappresentava il via libera, che aveva condotto il loro leader Mohammed Morsi alla presidenza della Repubblica. Per la prima volta dal 1928, un movimento che si proclama jihadista già dal proprio slogan («Dio è il nostro obiettivo. Il Profeta è il nostro capo. Il Corano è la nostra legge. Il jihad è la nostra via. Morire nella via di Dio è la nostra suprema speranza»), grazie a Obama e a Hillary Clinton, allora segretario di Stato, s’ impadroniva di uno dei maggiori Paesi del Medio Oriente. Senza peraltro contemplare nel proprio programma riforme autenticamente democratiche.
La mossa, che ha sconvolto fino a oggi gli equilibri regionali, salvo poi condurre al fallimento di tutte le cosiddette «Primavere arabe», non era isolata. Nel marzo del 2011, aveva condotto con il voto determinante degli Stati Uniti alla risoluzione 16/18 del consiglio per i Diritti umani dell’ Onu, che con il pretesto di colpire «l’ incitamento alla violenza fondato sulla religione e il credo», aveva introdotto alcuni elementi del diritto coranico negli stessi Stati Uniti. In Pakistan per il reato di blasfemia, cioè di ogni critica verso Maometto e il Corano, si viene condannati a morte. In America, in barba al principio della libertà di espressione sancito dal Primo emendamento della Costituzione, si imponeva un divieto «culturale» della cosiddetta islamofobia.
Era il trionfo del politicamente corretto nelle istituzioni, dove il terrorismo non poteva più essere definito islamico.
Non solo, nel tentativo di associare al potere i musulmani radicali, nell’ agosto 2010 era stato messo a punto un documento ancora oggi «classificato», lo Studio di Direttiva Presidenziale 11, cioè il documento che disegna una strategia volta a rovesciare i regimi del Medio Oriente, senza tener conto dell’ impatto sulla stabilità della regione. Su quel progetto rimarrà un alone mistero impenetrabile fin a quando l’ amministrazione Trump non deciderà di rivelarne i contenuti.
Magari sarà l’ occasione per ritoccare un po’ la lista degli invitati . Magari, il programma di visite di leader internazionali andrà rivisto, visto che nel 2006 il viaggio premio era toccato in sorte a Sumaya Abdelqader, la consigliera comunale milanese del Pd, la quale compariva fino a ieri sul sito del Bureau of Cultural and Educational Affair del Dipartimento di Stato americano, come un esempio di promotrice dell’ integrazione e della coesione sociale, avversaria dei pregiudizi sulle donne islamiche.
Andrea Morigi