Nominato il giudice costituzionale Gorsuch, ancora più a destra dei Repubblicani
Di tutte le promesse fatte in campagna elettorale da Donald Trump, la più universalmente attesa era quella del giudice che alla Corte Suprema sostituirà il defunto Antonin G. Scalia (1936-2016), campione dei conservatori. E Trump ha scelto un altro gran conservatore, Neil Gorsuch, corso di studi sfolgorante nella Ivy League, pedigree professionale che nemmeno gli avversari politici riescono a scalfire, attualmente giudice della Corte d’appello del Decimo Circuito per volere di George W. Bush Jr. nel 2006. Più di quanto la Destra osasse sperare. Episcopaliano, fiero oppositore di aborto, eutanasia e «nozze» gay, è uno schiaffo in pieno volto ai liberal che hanno imperversato durante il doppio mandato di Barack Obama.
Riassunto in due parole, Gorsuch è «originalismo» e difesa della libertà religiosa. Il primo è l’interpretazione della Costituzione federale per quel che essa dice secondo quanto scrissero i Padri fondatori e non in base alle ubbie fantasiose e ideologiche del momento. Il secondo è il principio primo di ogni diritto politico degli americani, sancito a lettere d’oro dalla legge fondamentale del Paese.
Negli Stati Uniti praticamente tutto passa, o può passare, per la libertà religiosa, compreso un mucchio di quelle questioni laiche che là mai chiamerebbero così, e il loro approdo ultimo è sempre la Corte Suprema da cui dipendono tutte le decisioni che tirano in ballo la costituzionalità di leggi o sentenze.
Ma l’attivismo giudiziario che è andato a braccetto con la giurisprudenza «allegra», con il diritto tanto più positivistico quanto meno naturale e con il relativismo aggressivo ha trasformato il massimo tribunale statunitense in un’ arma micidiale capace di ribaltare, anziché difendere, il senso del costituzionalismo americano in ordine alle libertà fondamentali della persona, al rapporto sia tra i cittadini e lo Stato federale sia tra gli Stati federati e il governo centrale, alla morale pubblica.
La Corte Suprema in mano ai liberal o ai giudici politicizzati (e spesso è la medesima cosa) ha insomma ridefinito l’homo americanus, come denunciato per tempo da Phyllis Schlafly (1924-2016), l’anima pro-family del movimento conservatore americano nel suo The Supremacists: The Tyranny of Judges and How to Stop It (Spence, Dallas 2004). E così l’organo di controllo dei controllori, dove quel conta davvero sarebbe la formazione giuridica, culturale e morale dei giudici, i loro requisiti tecnici e la loro integrità a difesa del diritto oltre ogni soggettivismo, si è trasformato in un’arena politica dove le decisioni si prendono a colpi di maggioranza ideologica.
La fotografia attuale di questo corpo nobiliare di «guardie svizzere» della Costituzione trasformato in rissa da bar vede i conservatori in minoranza, tre (il presidente John G. Roberts, Samuel Alito e Clarence Thomas), i liberal in maggioranza, quattro (Ruth Bader Ginsburg, Stephen Breyer, Elena Kagan e Sonia Sotomayor), e in coda l’ondivago Anthony Kennedy, che per lo più si schiera con i secondi. Anche con Scalia vivo, dunque, i conservatori erano in minoranza. Evidentemente avrebbe potuto andare molto peggio se le penultime nomine, quelle precedenti a quelle di Obama (Kagan nel 2010, Sotomayor nel 2009), non le avesse effettuate Bush Jr. che alla Corte Suprema mandò prima il conservatore Roberts nel 2005 (e direttamente alla presidenza), poi il conservatore Alito nel 2006. Ma l’occasione storica per fare una gran cosa si è presentata e Trump l’ha colta al volo.
Marco Respinti
Da “Libero” del 2 febbraio 2017. Foto da Slate