Domenica, nel corso di un’intervista radiofonica con il Prof. Alexandre Del Valle, alla quale ho avuto il piacere di partecipare, ci siamo trovati a constatare il fatto che la Russia di Putin è attualmente l’unica “potenza” ad avere una politica estera. Non una politica qualunque, ma una seria strategia destinata a riportare l’influenza russa nelle aree abbandonate con il crollo dell’URSS. Il caso forse più esemplificativo è quello dell’intervento in Siria.
Quella estera è una politica sui generis. Von Clausewitz nella sua opera Della Guerra ci dice che “la guerra non è altro che la continuazione della politica con altri mezzi”; parafrasandolo possiamo dire che la politica estera non è altro che la continuazione della guerra con altri mezzi. Una strategia di politica estera, come la guerra, ha per scopo la vittoria: acquisire una posizione preminente rispetto ad altri, influenzare la politica di altre nazioni, tutelare e promuovere gli interessi nazionali al di fuori dei propri confini.
Per raggiungere questi scopi serve una vasta gamma di soluzioni: non solo la diplomazia classica, ma anche accordi commerciali, diretti o tramite aziende rappresentative, proiezione di potenza finanziaria o militare, media e propaganda.
Piaccia o no, la Russia, questo, lo sta facendo e gli altri lo fanno molto meno o in maniera assai più incerta. Con la frantumazione del quadro globale la politica estera è diventata un gioco rischioso e le classi politiche occidentali detestano rischiare, rinunciando così ad ogni velleità di “guadagno” per i propri popoli.
Due notizie, che sono transitate sui media in questi giorni, dimostrano la differenza fra chi, come la Russia, ha una strategia e chi, come l’Italia, non ce l’ha.
La prima risale a dicembre ma è tornata alla ribalta in questi giorni: l’Eni ha ceduto all’azienda petrolifera russa Rosneft il 30% dei suoi diritti sul campo estrattivo off-shore egiziano di Shorouk (il più grande giacimento di gas naturale mai scoperto, da ENI e SAIPEM, nel Mediterraneo); la seconda, lanciata dalla stampa inglese martedì scorso, è l’accordo fra la NOC (National Oil Corporation, l’azienda petrolifera di stato della Libia) e lo stesso colosso petrolifero Rosneft.
Per brevità trascuro di commentare la prima: la partita attorno al mega-giacimento egiziano è complessa. Mi limito a sottolineare, in combinato disposto con la seconda, il subentro del colosso statale russo come sintomo di una rinnovata volontà di presenza attiva di Mosca sulle coste africane del Mediterraneo.
Concentriamo la nostra attenzione sull’accordo fra la NOC (National Oil Corporation, l’azienda petrolifera di stato della Libia) e la Rosneft. L’azienda di stato russa effettuerà significativi investimenti nell’industria petrolifera libica e ne otterrà in cambio contratti e posizioni di vantaggio. Nel comunicato stampa di NOC il presidente, Mustafa Senalla, ha dichiarato: “Questo accordo con la più grande azienda russa getta le fondamenta per individuare insieme aree di cooperazione. Collaborando con la NOC, la Rosneft e la Russia possono svolgere un ruolo importante e costruttivo in Libia”.
Quello che è importante, nel caso specifico, non è tanto il valore economico dell’accordo, ma il suo significato politico. Si tratta di un’operazione che da parte russa viene fatta probabilmente in perdita, viste le condizioni disperate del contesto libico al quale questi investimenti sono destinati. Non sarà certamente così per i dividendi geopolitici che Mosca si prefigge di ottenere.
È comunque difficile non considerare che ai tempi dell’esecrato duo Gheddafi-Berlusconi, queste erano posizioni a dominio italiano dalle quali siamo stati espulsi dal trio Cameron-Sarkozy-Obama con la stolta complicità dei neofiti mastini della guerra nostrani di sinistra (e, ahimè, anche qualcuno di destra).
La NOC è una delle poche istituzioni libiche sopravvissute al crollo della Jamāhīriyya, (come Gheddafi chiamava la sua Repubblica) anche perché svolge la sua attività e custodisce il suo patrimonio prevalentemente all’estero. Nella Libia dei due (o più) governi, dei due (o più) parlamenti e delle 230 (o più) milizie, la NOC sembra avere un rapporto privilegiato con la fazione di Tobruk, con a capo il Generale Haftar. Le sue milizie controllano una porzione importante della Cirenaica nella quale è compresa la cosiddetta “mezzaluna petrolifera”, la sponda orientale del Golfo della Sirte, dove sono localizzati i principali giacimenti petroliferi e, cosa anche più importante, i principali terminal portuali.
Dopo aver “riconquistato” la regione (in realtà ha stretto accordi con i leader tribali che la controllano), Haftar ha accolto il presidente di NOC, quel Mustafa Senalla che ha firmato l’accordo con Rosneft, e gli ha riconsegnato i giacimenti. Si può quindi facilmente immaginare che Haftar controlli la NOC, la quale ha siglato l’accordo con Rosneft, con il sostegno di Putin e l’approvazione dell’Egitto, principale sponsor regionale del generale. Così il cerchio si chiude. Come ho sottolineato in passato, Haftar si è recato più volte a Mosca negli ultimi mesi e a gennaio è stato ricevuto con grandi onori sulla portaerei Kuznetsov, ammiraglia della flotta russa nel Mediterraneo. In quelle occasioni ha più volte adombrato l’idea di concedere un punto di appoggio (una “base”) alla flotta russa in uno dei porti da lui controllati.
Tutto ciò premesso l’Italia continua a firmare, tra gli applausi scroscianti di UE ed Onu, rutilanti accordi con il governo di Tripoli, presieduto da Serraj, riconosciuto internazionalmente – come continuano ossessivamente a ripetere – ma debole e di fatto assente dal contesto.
Questo dimostra in primo luogo, se mai ve ne fosse bisogno, la totale assenza di una strategia di politica estera dell’Italia e della UE in un’area dirimpettaia e per noi vitale. Ma, in secondo luogo, dimostra anche che oramai il processo di formazione di una geopolitica russa per il Nord-Africa, tesa a tutelare gli interessi nazionali e internazionali di Mosca nello scacchiere mediterraneo, è in fase avanzata di realizzazione. Come ci insegna la Siria, bisognerà che questo fatto qualcuno prima o poi lo prenda in considerazione.
Sento a questo punto il dovere di rassicurare qualche lettore sospettoso: non sono diventato un agente prezzolato dell’apparato propagandistico putiniano. Quello che provo davanti alla volontà della leadership russa di ricostruire una dignitosa postura internazionale autonoma, da italiano, non la definirei ammirazione: è pura e semplice invidia.
Valter Maccantelli