Il blocco selettivo degli ingressi di Trump può contrastare il terrorismo ?
Il Presidente Trump sta lavorando ad una versione riveduta dell’Ordine Esecutivo dello scorso gennaio che prevedeva il bloccco temporaneo degli ingressi negli USA per tutte le tipologie di viaggiatori provenienti da Iran, Iraq, Libia, Somalia, Sudan, Siria e Yemen. Tale atto, ripetutamente impugnato davanti a varie corti, risulta al momento congelato e in attesa di un parziale rifacimento verosimilmente destinato a suscitare gli stessi dibattiti.
Non mi interessa, in questa sede, la discussione sulla legittimità, applicabilità od opportunità politica di questa decisione. Mi interessano invece le obiezioni che moltissimi governi e media hanno espresso circa la sua efficacia.
Gli argomenti usati da suoi oppositori sono sostanzialmente due: il primo rileva come dalla lista dei paesi “bannati” manchino alcuni nomi come l’Arabia Saudita (patria di alcuni attentatori dell’11 settembre), Giordania, Egitto etc., da cui provengono molti potenziali terroristi e fiancheggiatori; il secondo, più tecnico, sottolinea come un blocco così generalizzato sia inefficace per la sproporzione fra i costi sociali che comporterebbe e l’effettivo contrasto al terrorismo che otterebbe.
L’accusa di parzialità opportunistica nella selezione delle nazionalità oggetto del blocco sembra portare la discussione sul piano della polemica politica. In realtà le presenze e le assenze dalla lista possono avere anche una spiegazione tecnica, opinabile ma non infondata. Nella lista sono incluse nazioni i cui servizi di sicurezza sono dichiaramente ostili verso gli USA (Iran) o stati falliti, che non sono in grado di esercitare alcun controllo sui propri organi amministrativi (Libia, Somalia e Sudan), o in stato di guerra (Iraq e Yemen).
Il timore, assai fondato, è quello che stati con gli apparati amministrativi allo sbando e altamente corrotti siano in grado di “fabbricare” cittadinanze di comodo, non sufficienti per un passaporto valido direttamente per gli USA, ma comunque in grado di permettere a terroristi e fiancheggiatori di inserirsi nell’enorme flusso di profughi e migranti senza fare scattare gli allarmi anti-terrorismo. Un meccanismo che si ritiene inaugurato da Saddam Hussein che, dando oramai per perso il Kuwait, poco prima di ritirarsi infarcì l’anagrafe di quel paese di identità create sul momento e destinate a dare una nuova vita, come cittadini kuwaitiani, ad agenti iracheni. La bonifica richiese molto tempo e non fu mai veramente completata tanto che di alcuni personaggi pericolosi, segnalati in precedenza come cittadini iracheni, si persero le tracce.
Molti degli Stati di cui si è sottolineata l’assenza – Arabia Saudita, Egitto, Giordania o Kuwait – sono nazioni con servizi di sicurezza che collaborano da anni e in modo decisamente stretto con quelli statunitensi. Questo permette un doppio e più efficace controllo, all’uscita e all’ingresso, che, pur non risolutivo, diminuisce il rischio di infiltrazioni. È peraltro evidente che la lista poteva essere compilata con più attenzione o con criteri diversi: l’inclusione dell’Iran, ad esempio, sembra rispondere più a logiche di scontro geopolitico che di contrasto al terrorismo. Per contro qualche stato fallito della fascia sub-sahariana poteva essere preso più seriamente in considerazione.
Più sofisticata è la seconda obiezione che mira a dimostrare la presunta inefficacia tecnica di simili provvedimenti. Ha avuto un certo risalto una “Risk Analysis” pubblicata su Policy Analysis dal CATO Institute, think tank americano di ispirazione ultra-liberale-libertaria, intitolato Terrorism and Immigration. Questo studio prende in esame le figure coinvolte nel terrorismo dal 1975 al 2015 e le classifica in base al tipo di visto con il quale sarebbero entrate negli USA. Partendo da questo incrocio gli autori arrivano alla conclusione che un cittadino americano ha una possibilità su 3,64 miliardi di essere ucciso in un attentato commesso da un rifugiato. Pubblicata nel settembre 2016, in piena campagna elettorale per le presidenziali, questa analisi sembrava smentire con dati scientifici uno dei punti principali del programma di Trump.
La chiave interpretativa della teoria si trova nell’introduzione al report: “Una politica di controllo del terrorismo deve fare più bene che male per giustificare la propria esistenza. Questo significa che il costo del danno che si prefigge di evitare deve essere almeno uguale a quello che impone”.
Se in linea di principio questo assunto sembra “ragionevole”, non risulta corretto applicarlo automaticamente alla valutazione dei provvedimenti per il contrasto al terrorismo. La tesi evidenzia una scarsa comprensione della natura asimmetrica del terrorismo islamico moderno, specialmente quando opera fuori dai paesi musulmani. Quello del costo-beneficio è un criterio valido nel confronto simmetrico (senza la “a”): posso legittimamente valutare se mi conviene spendere dei soldi pubblici (danno) per costruire una portaerei destinata a difendere lo spazio aereo del mio schieramento (beneficio) anziché un missile antinave capace di affondare la porterei nemica da cui decollano gli aerei che arrivano a colpirmi.
Quella “a” di “asimmetrico” significa esattamente che nello scontro antiterrorismo-terrorismo si confrontano soggetti di natura intrinsecamente diversa: uno stato-nazione-società, da un lato, e un gruppo, anche molto piccolo, di soggetti determinati a colpire, non si sa chi-dove-come-quando, dall’altro. Per assurdo che possa sembrare, in questo ambito può essere conveniente mandare un esercito dall’altra parte del mondo per contrastare il Mullah Omar con il suo fax e la sua motocicletta.
Ad essere rigorosi, nel contrasto alle minacce asimmetriche non è neppure corretto parlare di giusto o sbagliato: la verità è che con il senno del prima non si può sapere. Uno stato che si propone di difendere i suoi cittadini dal terrorismo, per dichiarare di aver avuto successo, deve difendere ogni piazza, ogni assembramento, ogni luogo in ogni momento. Ad un terrorista, per fare il colpo della vita – e dichiarare quindi vittoria – bastano un’automobile e qualche vecchietto in attesa alla fermata dell’autobus. La proporzione costo-efficacia salta immediatamente.
Lo screening di polizia e di intelligence nei confronti del terrorismo potenziale è una perenne rete stesa in un mare grandissimo con pochi, piccolissimi, pesci letali: la rete vale enormemente di più dell’unico pesce che cattura ma non si può non metterla e sperare che il potenziale assassino venga colpito da un meteorite mentre si organizza.
Del resto sono gli stessi opinionisti mediatici, che si strappano i capelli di fronte alle violazioni di presunti diritti di libertà di circolazione dovuti ai controlli antiterrorismo, a confermare questa tesi: se un cittadino americano ha infinite più possibilità di perire in un’incidente automobilistico che per mano di un terrorista entrato con un visto di ricongiungimento familiare, perché i media stessi dedicano agli attentati le prime dieci pagine e, quando le dedicano, due righe agli incidenti stradali?
Quindi, con tutte le cautele e i distinguo del caso, non è affatto detto che i provvedimenti che Trump si propone di prendere per il contrasto alle minacce asimmetriche verso i cittadini americani siano così assurde come vogliono farci credere. In realtà lo sapremo solo dopo e, forse, non lo sapremo mai con certezza. È comunque probabile che siano più efficaci dei gessetti colorati all’europea. È l’asimmetrica bellezza!
Valter Maccantelli