« Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi. Allora Gesù disse loro: “Questa notte per tutti voi sarò motivo di scandalo. Sta scritto infatti: Percuoterò il pastore e saranno disperse le pecore del gregge. Ma, dopo che sarò risorto, vi precederò in Galilea”. Pietro gli disse: “Se tutti si scandalizzeranno di te, io non mi scandalizzerò mai”. Gli disse Gesù: “In verità io ti dico: questa notte, prima che il gallo canti, tu mi rinnegherai tre volte”. Pietro gli rispose: “Anche se dovessi morire con te, io non ti rinnegherò”. Lo stesso dissero tutti i discepoli. Allora Gesù andò con loro in un podere, chiamato Getsèmani, e disse ai discepoli: “Sedetevi qui, mentre io vado là a pregare”. E, presi con sé Pietro e i due figli di Zebedeo, cominciò a provare tristezza e angoscia. E disse loro: “La mia anima è triste fino alla morte; restate qui e vegliate con me”. Andò un poco più avanti, cadde faccia a terra e pregava, dicendo: “Padre mio, se è possibile, passi via da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!”. Poi venne dai discepoli e li trovò addormentati. E disse a Pietro: “Così, non siete stati capaci di vegliare con me una sola ora? Vegliate e pregate, per non entrare in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole”. Si allontanò una seconda volta e pregò dicendo: “Padre mio, se questo calice non può passare via senza che io lo beva, si compia la tua volontà”. Poi venne e li trovò di nuovo addormentati, perché i loro occhi si erano fatti pesanti. Li lasciò, si allontanò di nuovo e pregò per la terza volta, ripetendo le stesse parole. Poi si avvicinò ai discepoli e disse loro: “Dormite pure e riposatevi! Ecco, l’ora è vicina e il Figlio dell’uomo viene consegnato in mano ai peccatori. Alzatevi, andiamo! Ecco, colui che mi tradisce è vicino” » (Mt 26,30-46).
Prima di tutto consideriamo che qui Gesù fa tre predizioni sul futuro prossimo. Predice per prima cosa che tutti lo abbandoneranno. La loro fede sarà messa alla prova in modo così forte che tutti quanti lasceranno il Maestro solo. Si realizzeranno le parole del profeta Zaccaria: « Percuoti il pastore e sia disperso il gregge » (Zc 13,7): il profeta messianico sarà percosso e il gregge scapperà in tutte le direzioni. Queste parole avranno la loro realizzazione quella notte stessa. La seconda predizione riguarda la nuova riunione del gregge dopo la resurrezione. Come dice Zaccaria alla prova sopravviverà un resto. Dal male sorgerà un nuovo bene e il resto darà vita ad una nuova congregazione, il resto sarà infatti purificato con il fuoco « lo purificherò come si purifica l’argento; lo proverò come si prova l’oro. Invocherà il mio nome e io l’ascolterò; dirò: “Questo è il mio popolo”. Esso dirà: “Il Signore è il mio Dio” » (Zc 13,9). Così, dopo la morte del Messia si aprirà la via ad una nuova vita e i suoi discepoli troveranno la strada verso una nuova riunione. La terza predizione riguarda il solo Pietro che lo contraddice apertamente, ponendo fiducia nella sua lealtà e Gesù predice che lo rinnegherà per ben tre volte. Gesù affronta con la preghiera i momenti decisivi della sua vita: all’inizio della sua vita pubblica va nel deserto solo a pregare (Mt 4,1-11; Mc 1,12-13; Lc 4,1-13). Anche quando deve scegliere gli apostoli si ritira sul monte a pregare (Mc 3,13-14; Lc 6,12-16). Anche in questo momento supremo, che è quello decisivo di tutta la sua vita si ritira in preghiera in un luogo dove probabilmente andava spesso a pregare, un luogo probabilmente di proprietà di un suo discepolo, detto Getsèmani (frantoio per l’olio). Questa volta però non va solo, ma si fa accompagnare dagli apostoli. Anzi, ad un certo punto, si addentra più in profondità e prende con sé i tre apostoli da cui si era fatto accompagnare sul monte Tabor e che avevano assistito alla sua trasfigurazione. La preghiera all’epoca era sempre ad alta voce, per cui si comprende come abbiano potuto sentirlo distintamente. D’altra parte forse lo stesso episodio è così descritto dall’autore della lettera agli Ebrei: « Nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito » (Eb 5,7). Il racconto ha qualcosa di stupefacente, perché a Gesù vengono attribuiti dei sentimenti “strani”: « cominciò a provare tristezza e angoscia. E disse loro: “La mia anima è triste fino alla morte; restate qui e vegliate con me” » (Mt 26,37); « cominciò a sentire paura e angoscia. Disse loro: “La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate” » (Mc 14,34). Molti si sono chiesti: qui Gesù non appare decisamente inferiore ad altri grandi personaggi che hanno affrontato la prova della morte? Non emerge qui una differenza tra lui e Socrate, che affronta in modo assolutamente imperturbabile la morte certa che gli sta davanti? Molti martiri hanno affrontato una morte terribile senza nessuna paura. Qui bisogna considerare due cose: Gesù affronta volontariamente la prova per così dire “dal di dentro”, assumendo su di sé tutti i sentimenti propri all’umanità. Nel rifiuto del dolore e nella resistenza allo stesso non c’è nulla di peccaminoso. Gesù non è e non vuole neppure apparire come un “superuomo”, ma vuole essere uomo fino in fondo. A lui è estranea qualunque impassibilità, quell’impassibilità che ha dimostrato in modo eccezionale il principe indiano Siddhārtha Gautama, detto il Buddha, cioè lo “svegliato”. Gesù non vuole essere estraneo alle nostre paure, alle nostre angoscie, a tutte le nostre debolezze, ma le porta tutte quante su di sé. Ma c’è qualcosa di più e di unico. Di che cosa ha paura Gesù? Delle ferite che verranno inferte sul suo corpo? Della terribile flagellazione? Della corona di spine? Dei chiodi con cui gli trafiggeranno mani e piedi? Della solitudine in cui si troverà, abbandonato da tutti i suoi amici? Delle terribili umiliazioni che devasteranno il suo spirito? Anche. Ma c’è qualcosa di più. Quel qualcosa di più che ha intuito con precisione san Paolo: « Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio » (2Cor 5,21). Che cos’è il peccato nella sua intima essenza? Separazione da Dio. Quello che lo fa “peccato”, cioè tradimento e sorgente di terribile sofferenza è il suo carattere libero e volontario. Questo peccato in quanto libero e volontario non c’è ovviamente in Gesù: « Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato » (Eb 4,15). Gesù non “fa” il peccato, ma porta su di sé le conseguenze del peccato. Quel peccato che per noi spesso appare come una sciocchezza, lui lo comprende fino in fondo ed ora sta accettando di viverne le spaventose conseguenze: san Giovanni il Battista lo aveva profeticamente capito: « Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo! » (Gv 1,29). È questo che provoca in lui una terribile ripulsa: « Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu » (Mc 14,36; Mt 26,42). Sente l’umano bisogno di vicinanza in questa avventura che solo lui può ora percorrere fino in fondo: « Dove vado io, voi non potete venire » (Gv 8,21; 13,33.36) e per tre volte la cerca ma sempre invano. Questa ricerca però non è finita: anche oggi Gesù cerca consolatori. Come è possibile consolare Gesù per un evento ormai concluso? « Tutto ciò che Cristo ha vissuto, egli fa sì che noi possiamo viverlo in lui e che egli lo viva in noi. “Con l’Incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo” [Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes, 22]. Siamo chiamati a formare una cosa sola con lui; egli ci fa comunicare come membra del suo Corpo a ciò che ha vissuto nella sua carne per noi e come nostro modello: “Noi dobbiamo sviluppare continuamente in noi e, in fine, completare gli stati e i Misteri di Gesù. Dobbiamo poi pregarlo che li porti lui stesso a compimento in noi e in tutta la sua Chiesa. […]. Il Figlio di Dio desidera una certa partecipazione e come un’estensione e continuazione in noi e in tutta la sua Chiesa dei suoi Misteri mediante le grazie che vuole comunicarci e gli effetti che intende operare in noi attraverso i suoi Misteri. E con questo mezzo egli vuole completarli in noi” [San Giovanni Eudes, Tractatus de regno Iesu, cfr. Liturgia delle Ore, IV, Ufficio delle letture del venerdì della trentatreesima settimana] » (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 521). La persona dell’uomo Gesù è il Verbo eterno ed increato di Dio: le sua azioni sono avvenute nel tempo, ma recano in sé una dimensione ed un significato eterno, a cui noi – oggi – possiamo partecipare. Noi certamente non siamo capaci di compierle (« Dove vado io, voi non potete venire »), ma siamo però chiamati a parteciparvi. A questa chiamata possiamo liberamente rispondere ed essere così autentici, reali ed efficaci, consolatori del Figlio di Dio. È più che comprensibile che la sofferenza di Gesù trasparisse a livello umano in modo unico. Luca, medico di professione (cfr. Col 4,14) è l’unico a notarlo: « Entrato nella lotta, pregava più intensamente, e il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadono a terra » (Lc 22,44).