Nella nostra Domenica di Pasqua si è tenuto in Turchia il referendum destinato a confermare la riforma costituzionale già approvata dal Parlamento a gennaio. Potrebbe sembrare una questione politica interna ma in realtà è uno dei più importanti fatti geopolitici del Medio Oriente da molti anni a questa parte. L’esito di questo referendum è destinato ad influire, ad esempio, sulla situazione in Siria ben più del bombardamento di Trump.
Il quesito chiedeva di confermare 18 emendamenti alla costituzione destinati ad introdurre un presidenzialismo di tipo esecutivo “alla turca”. Viene abolita la figura del Primo Ministro i cui poteri sono assorbiti dal Presidente della Repubblica; Il Presidente ha facoltà di nominare 12 dei 15 membri della Corte Costituzionale e la maggioranza dei membri del Consiglio dei Giudici e dei Pubblici Ministeri; può scavalcare il Parlamento per la legge di bilancio e, con un decreto presidenziale, in qualunque materia; vengono aboliti i tribunali militari e il Presidente diventa il capo di fatto delle Forze Armate;si amplia il numero di parlamentarie viene abbassata la soglia di età per l’elettorato attivo e passivo.
Ha vinto il SI (in turco Evet) o, per meglio dire, ha vinto il Presidente Recep Tayyip Erdogan. È stata una vittoria, alla fine, piuttosto risicata (circa il 51,5 % per il Si, 1,4 milioni di voti di differenza) – dopo che i primi risultati lasciavano intendere un vantaggio più netto -, ottenuta con molta fatica e mettendo in campo tutti i mezzi disponibili.
Cosa fatta capo ha, specialmente in Turchia: possiamo passare i prossimi giorni a discutere sui brogli (probabili) o sulle scorrettezze della campagna elettorale (numerose) o sull’esiguità del margine, oppure constatare che, al netto di tutto, circa la metà dell’elettorato turco, per convinzione o sfinimento, ha reso effettiva la riforma che farà di Erdogan il suo “capo” per parecchi anni a venire, salvo incidenti.
Le prossime settimane saranno comunque dure per la Turchia: la prevedibile insorgenza degli oppositori del Presidente aprirà un periodo di forte instabilità interna. Alla fine però è probabile che tutto rientri nei confini della “normalità turca”, rafforzando – paradossalmente – nella classe media mercantile l’immagine di Erdogan come fattore di stabilità e ordine.
Erdogan si è giocato molto: una sconfitta avrebbe segnato l’inizio della fine del suo potere o avrebbe comunque richiesto, per annullarne gli effetti, una ulteriore svolta repressiva, rischiosa perfino per lui. Ad Istanbul contano molto sul modello di “stato forte alla turca” per giocare con le mani libere un ruolo egemone sulla parte settentrionale dello scacchiere medio-orientale e non solo. Ora il Presidente ha la sua “Sublime Porta”, cosa ne farà?
Qualcuno potrebbe credere che questa vittoria sia per Erdogan il punto di arrivo di una lunga marcia verso il potere assoluto, oltretutto inutile visto che già detiene la maggior parte delle leve del potere. Sarebbe, almeno parzialmente, un pensiero sbagliato: questo non è il termine di un progetto finalizzato ad instaurare una dittatura ma è l’inizio di un percorso che, almeno nei pensieri di Erdogan, porterà la Repubblica di Turchia a festeggiare il suo centenario, nel 2023, con una postura internazionale decisamente più autorevole di quella attuale. Molti la definiscono una politica “neo-ottomana” ed è chiaro che per metterla in pratica ci vuole un “neo-sultano”.
Da dove nasce e in che cosa consiste questo progetto? Il suo svolgimento, al là del successo o dell’insuccesso finale, come influenzerà il quadro geopolitico? Sforzarsi di dare almeno un’ipotesi di risposta a queste domande è forse l’esercizio più utile che si possa fare all’indomani di questa vittoria.
Valter Maccantelli