« Dico la verità in Cristo, non mento, e la mia coscienza me ne dà testimonianza nello Spirito Santo: ho nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua. Vorrei infatti essere io stesso anàtema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne. Essi sono Israeliti e hanno l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse; a loro appartengono i patriarchi e da loro proviene Cristo secondo la carne, egli che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli. Amen.» (Rm 9,1-5).
In questo passo è sintetizzato il dramma di Israele e il dramma personale di san Paolo. Israele rifiuta il Vangelo e san Paolo vorrebbe essere “anàtema” (maledetto) al posto dei suoi fratelli (cfr. Rm 9,3), ma – nello stesso tempo – continua ad essere amato da Dio in modo speciale (« Quanto al Vangelo, essi sono nemici, per vostro vantaggio; ma quanto alla scelta di Dio, essi sono amati, a causa dei padri, infatti i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili! » Rm 11,28-29). È il mistero di Israele, un mistero che ci cammina accanto e che, ancora oggi, possiamo constatare. C’è un modo sicuro per riuscire antipatico in qualunque ambiente (di qualunque tendenza…): parlare non dico bene, ma semplicemente non-male degli ebrei… San Paolo, nei capp. 9-11 della lettera ai Romani, vuole dimostrare quello che gli sta più a cuore, cioè che la salvezza dipende dalla fede e la fede è accoglienza delle promesse divine. In quest’ordine di idee gli si presenta davanti una difficoltà formidabile: che ne è delle promesse fatte al popolo di Israele? « Essi sono Israeliti e possiedono l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi; da essi proviene Cristo secondo la carne, egli che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli » (Rm 9,4-6). « […] a loro sono state affidate le rivelazioni di Dio. Che dunque? Se alcuni non hanno creduto, la loro incredulità può forse annullare la fedeltà di Dio? Impossibile! » (Rm 3,2-4). Il tema è la provvidenza di Dio, non tanto in quanto rivolta ad un singolo, ma in quanto ha per oggetto gruppi di uomini dotati di una particolare unità di destino – popoli – in vista del loro ruolo nella storia della salvezza. Dio non promette mai nelle Scritture la salvezza incondizionatamente ad un singolo, ma a un popolo lo ha fatto e questo è il popolo di Israele. Ora sembra proprio che qui la promessa di Dio si sia rivelata illusoria, perché il popolo di Israele – nel suo insieme – non ha accettato la predicazione degli apostoli. San Paolo cerca di rispondere e la sua risposta di scagliona in tre tentativi. Il fatto che una soluzione sia seguita da un’altra non vuol dire che la precedente sia falsa, ma indica certamente che è insoddisfacente a sé sola. Così dapprima san Paolo dice che il vero Israele non è l’Israele “secondo la carne”, perché Israele era spiritualmente presente nella persona del patriarca Abramo, il quale è entrato nell’alleanza credendo alla promessa di Dio: « Tuttavia la parola di Dio non è venuta meno. Infatti non tutti i discendenti di Israele sono Israele, né per il fatto di essere discendenza di Abramo sono tutti suoi figli. No, ma: in Isacco ti sarà data una discendenza, cioè: non sono considerati figli di Dio i figli della carne, ma come discendenza sono considerati solo i figli della promessa » (Rm 9,6-8). Si è dunque figli di Abramo in quanto si eredita la sua fede e non soltanto per discendenza biologica. Sta di fatto però che la promessa di Dio riguardava la discendenza di Abramo, il suo popolo, in termini ben concreti. Dio infatti promette e dona un figlio ad Abramo e Sara. È per questo che san Paolo prosegue l’argomentazione evocando il ben noto tema profetico del “resto di Israele”. « Io domando dunque: Dio avrebbe forse ripudiato il suo popolo? Impossibile! Anch’io infatti sono Israelita, della discendenza di Abramo, della tribù di Beniamino. Dio non ha ripudiato il suo popolo, che egli ha scelto fin da principio. O non sapete forse ciò che dice la Scrittura, nel passo in cui Elia ricorre a Dio contro Israele? “Signore, hanno ucciso i tuoi profeti, hanno rovesciato i tuoi altari e io sono rimasto solo e ora vogliono la mia vita” (1Re 19,10). Cosa gli risponde però la voce divina? “Mi sono riservato settemila uomini, quelli che non hanno piegato il ginocchio davanti a Baal” (Ibid. 18). Così anche al presente c’è un resto, conforme a un’elezione per grazia » (Rm 11,1-5). In fondo lui e i suoi collaboratori, la comunità degli apostoli e della chiesa di Gerusalemme, un gran numero di credenti sono israeliti. Essi sono “il resto”. La Chiesa è composta di giudei e di gentili. Il comando di Cristo di rivolgersi dapprima alla casa di Israele è stato rispettato. Questo però pone come una spaccatura all’interno di Israele: il resto e gli altri. Bisogna tener conto di nuovo che quello che san Paolo ha qui in vista non è direttamente il problema della salvezza individuale, i cui esiti sono in definitiva noti solo a Dio, bensì il piano di Dio; egli si situa in una prospettiva di teologia della storia, cioè di teologia della provvidenza storica di Dio. Anche il piano provvidenziale di Dio sulla storia è noto – nei suoi ultimi dettagli a Dio solo – ma è un piano (il mistero nascosto dai secoli eterni) che Dio ha voluto rivelare agli uomini nelle sue linee generali. A queste linee generali appartiene il ruolo primario affidato a Israele. Ora, nonostante il resto, Israele sembra essere posto ora “fuori gioco”. San Paolo allora avanza una nuova soluzione: il rifiuto di Israele non rappresenta il venir meno – neppure parziale – del piano di Dio, perché Dio sa servirsi del male della storia per farne uscire un bene ancor maggiore, per cui questo stesso rifiuto, l'”indurimento” di Israele, ha un senso provvidenziale. A causa del rifiuto di Israele sono le genti ad entrare nel piano di Dio. Alla fine poi anche Israele entrerà e il suo ruolo sarà straordinario. « Ora io domando: Forse inciamparono per cadere per sempre? Certamente no. Ma a causa della loro caduta la salvezza è giunta ai pagani, per suscitare la loro gelosia. Se pertanto la loro caduta è stata ricchezza del mondo e il loro fallimento ricchezza dei pagani, che cosa non sarà la loro partecipazione totale! » (Rm 11,11-12). Questo «indurimento [ pôrôsis ]» d’altra parte non comporta un venir meno dell’alleanza: « Quanto al vangelo, essi sono nemici, per vostro vantaggio; ma quanto alla elezione, sono amati, a causa dei padri, perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili! » (28-29). San Paolo non spiega perché l’indurimento di Israele produce l’entrata delle genti. Parrebbe anzi che questo non sia poi così importante, dato che i popoli erano comunque chiamati alla salvezza. A ben pensarci però una qualche ragione la si può trovare. Primo: l’antisemitismo già ampiamente diffuso nell’ambiente ellenistico e romano antico. Se il messaggio di Cristo si fosse presentato con connotati esclusivamente – se non prevalentemente – giudaici difficilmente avrebbe potuto essere accolto dalla cultura greco-romana. Secondo: i giudeo-cristiani costituiscono un problema all’interno della Chiesa primitiva composta di giudei e gentili per la loro difficoltà a staccarsi dall’osservanza scrupolosa e letterale della componente cerimoniale della legge, soprattutto per la loro pretesa che diventare cristiano dovesse necessariamente significare un previo diventare ebreo. Qui non è più direttamente un problema collegato con la presenza dell’antisemitismo nella cultura dell’epoca, quanto il significato che l’ebraismo doveva rivestire all’interno del piano della salvezza. Da indispensabile “pedagogo”, rischiava di diventare uno schermo ingombrante. A queste ragioni aggiungerei il fatto che le genti: qui i greci e i romani – e quindi le loro culture – vengono ad assumere un ruolo storico primario, con tutti i vantaggi che ciò significa. Il bene più grande non consiste nel donare il bene, quanto nel far fare liberamente il bene… Naturalmente nasce un grande problema. Se il ruolo dei popoli diventa chiaro, il ruolo di Israele rischia di diventare sempre più incomprensibile. La crisi infatti si manifesta all’interno della Chiesa e coinvolge il significato dell’Antico Testamento. Da Marcione a von Harnak si è affacciata spesso la tentazione di disfarsi dell’Antico Testamento come di un fastidioso “ingombro”. Sappiamo che la Chiesa “grazie a Dio” vi ha resistito. Ciò non toglie che la persistenza storica di Israele risultava essere sempre di più incomprensibile. Non così tanto però da non percepire che era un evento di natura provvidenziale. La teologia agostiniana del “popolo testimone” lo attesta. Ora se l’antica alleanza è venuta meno, Israele non esiste più e viceversa: se Israele esiste ancora, allora l’Alleanza non è venuta meno. Israele infatti non è un popolo come gli altri. La sua natura di popolo è ultimamente soprannaturale, “ecclesiale”. Nasce da una convocazione, la convocazione di Dio. Se questa convocazione viene meno, viene meno il suo risultato, ma se il risultato permane ciò significa che la convocazione è ancora in atto. San Paolo parla di una futura conversione di Israele. Anche questo presuppone una sua permanenza. Se Israele è nel frattempo sparito chi si convertirà? « […] a loro sono state affidate le rivelazioni di Dio. Che dunque? Se alcuni non hanno creduto, la loro incredulità può forse annullare la fedeltà di Dio? Impossibile! » (Rm 3,2-4; cfr 2Tim 2,13). « Essi sono Israeliti e possiedono l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi; da essi proviene Cristo secondo la carne, egli che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli » (Rm 9,4-6). A questa misteriosa permanenza di Israele nella storia – con il suo significato provvidenziale – si possono forse applicare mutatis mutandis le osservazioni che san Giovanni Paolo II, nel suo libro-intervista Varcare le soglie della speranza, rivolge al mistero della disunione dei cristiani: « […] potremmo davvero domandarci: perché lo Spirito Santo ha permesso tutte queste divisioni? In genere, le loro cause e i meccanismi storici sono conosciuti. È legittimo però chiedersi se non vi sia anche una motivazione metastorica. A questa domanda possiamo trovare due risposte. Una più negativa, vede nelle divisioni il frutto amaro dei peccati dei cristiani. L’altra, invece, più positiva, è generata dalla fiducia in Colui che trae il bene persino dal male, dalle debolezze umane: non potrebbe essere, dunque, che le divisioni siano state anche una via che ha condotto e conduce la Chiesa a scoprire le molteplici ricchezze contenute nel Vangelo di Cristo e nella redenzione da Lui operata? forse tali ricchezze non sarebbero potute venire alla luce diversamente… In una visione più generale, si può infatti affermare che, per la conoscenza e per l’azione umane, è significativa anche una certa dialettica. Lo Spirito Santo, nella Sua condiscendenza divina, non lo ha preso in qualche modo in considerazione? Bisogna che il genere umano raggiunga l’unità mediante la pluralità, che impari a raccogliersi nell’unica Chiesa, pur nel pluralismo delle forme del pensare e dell’agire, delle culture e delle civiltà. Una tale maniera di intendere non potrebbe essere in un certo senso più consona alla sapienza di Dio, alla Sua bontà e provvidenza? Questa, tuttavia, non può essere una giustificazione per divisioni che si approfondiscono sempre di più! Deve giungere il tempo in cui si manifesti l’amore che unisce! Numerosi indizi lasciano pensare che quel tempo sia effettivamente giunto e, di conseguenza, risulta evidente l’importanza dell’ecumenismo per il cristianesimo. Esso costituisce una risposta all’invito della Prima Lettera di Pietro a “dare ragione della speranza che è in noi” (cfr. 3,15) » (pp. 167-168). Queste considerazioni di san Paolo che riflette attentamente davanti a Dio sulla storia del suo popolo, che è anche la storia della sua vita e la storia dell’umanità, ci aiutano a comprendere quanto la storia sia importante. È nella storia e mediante la storia che Dio ci salva. La prima storia da osservare con attenzione davanti a Dio è la nostra vita. Dobbiamo assolutamente evitare che diventi “quella cosa che ti succede mentre tu sei impegnato a pensare ad altro”. È il senso vero e profondo dell’esame di coscienza… Facendolo bene possiamo addirittura scoprire che la Bibbia è un libro interessantissimo, perché racconta – in vera profondità – la nostra vita!