« Un sabato si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano a osservarlo. […]. Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi posti: “Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: “Cedigli il posto!”. Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. Invece, quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: “Amico, vieni più avanti!”. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato” » (Lc 14,1.7-11).
« […] chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato »: questo detto di Gesù ricorre tre volte nei Vangeli sinottici in tre contesti diversi. Vuol dire dunque che era un’espressione frequente sulle labbra di Gesù (pronunciata con tutta probabilità molte più volte delle sole tre riportate per iscritto), un detto preferito per indicare uno stile di vita a lui particolarmente congeniale. Ricorre infatti una volta in Matteo, nel cuore del duro discorso riguardante gli scribi e i farisei (23,12). Gesù si aspettava molto da loro, avrebbe voluto trovare in loro degli alleati. In qualche caso, come nella polemica con i Sadducei, si schiera dalla loro parte (20,27-40). Identifica però con lucidità il loro difetto principale che è l’orgoglio, il quale impediva loro di vedere che quello che insegnava Gesù lungi dal distruggere la Legge che amavano tanto ne rappresentava in realtà l’inveramento e il compimento.
È la ragione della sua durezza: vuole scuoterli profondamente e distogliere chi si lasciava impressionare dalla loro autorità dal seguirli su una strada che li avrebbe allontanati dalla verità che salva. O meglio: dice di ascoltare il loro insegnamento, ma di non imitare il loro atteggiamento di orgoglio ipocrita. Troviamo poi lo stesso detto per due volte nel Vangelo di Luca. Una volta a proposito della preghiera: « Disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: “Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”.
Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato” » (Lc 18,9-14). La preghiera del fariseo è piena di orgoglio e di sicurezza, mentre quella del pubblicano di umiltà e timor di Dio. Solo quest’ultima è ascoltata da Dio. Santa Madre Chiesa ce la fa praticare, nel rito latino, tutte le volte che incominciamo la celebrazione della Messa. Il sacerdote, inclinato umilmente davanti a Dio, recita con l’assemblea “Confesso a Dio onnipotente e a voi fratelli, che ho molto peccato in pensieri, parole, opere e omissioni, per mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa (qui si percuote il petto). E supplico la beata sempre vergine Maria, gli angeli, i santi e voi, fratelli, di pregare per me il Signore Dio nostro “.
La Chiesa vuole che facciamo nostri esteriormente e soprattutto interiormente i sentimenti del pubblicano. Infine lo troviamo qui come conclusione dell’esempio (מָשָׁל: esempio, parabola) dell’invitato al banchetto di nozze che si mette al primo o all’ultimo posto (14,7-11). Le parabole di Gesù hanno sempre un fondamento autobiografico. L’invitato che sceglie l’ultimo posto e che viene esaltato e collocato al primo posto è Gesù stesso. San Paolo afferma: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò sé stesso, assumendo la condizione di servo divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana umiliò sé stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2, 5-8). Non una morte qualunque; ai tempi di Gesù la croce era un supplizio particolarmente umiliante: la morte in croce era la morte dei malfattori.
I cristiani prima di rappresentare Cristo in Croce ci hanno messo dei secoli: quando la società ha dimenticato che cosa era la Croce, hanno trovato il coraggio di rappresentare Cristo in Croce. Per noi oggi è una ovvietà, fin troppo… Le rappresentazioni realistiche di Gesù appeso alla Croce non fanno la loro apparizione prima del VI secolo inoltrato. « Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: “Gesù Cristo è Signore!”, a gloria di Dio Padre » (Fil 2,9-11). Morendo sulla Croce, scegliendo quell’ultimissimo posto Gesù ha meritato di ricevere il nome che è al di sopra di ogni altro nome, cioè il nome impronunciabile ed ineffabile di Dio. Lui era Dio da tutta l’eternità, ma in quel momento ha meritato di essere Dio secondo la natura umana, portando questa natura ad un livello di gloria inaudito, superiore agli angeli. Scegliere l’ultimo posto vuol dire allora partecipare all’umiltà di Gesù, entrando così nell’intimo della sua stessa vita, perché chi « si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato ».