« Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa. Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare. Se la tua mano ti è motivo di scandalo, tagliala: è meglio per te entrare nella vita con una mano sola, anziché con le due mani andare nella Geènna, nel fuoco inestinguibile. E se il tuo piede ti è motivo di scandalo, taglialo: è meglio per te entrare nella vita con un piede solo, anziché con i due piedi essere gettato nella Geènna. E se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, gettalo via: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geènna, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue. Ognuno infatti sarà salato con il fuoco. Buona cosa è il sale; ma se il sale diventa insipido, con che cosa gli darete sapore? Abbiate sale in voi stessi e siate in pace gli uni con gli altri » (Mc 9,41-50).
Gesù ama parlare in parabole, cioè per similitudini, in cui da un fatto concreto a tutti noto o facilmente immaginabile si potesse risalire ad una verità salutare. La “Geènna” è infatti un luogo concreto della città di Gerusalemme: la città era limitata a sud da una profonda depressione detta “valle dei figli di Hinnom”, Gê-Ben-Hinnom (Gs 15,8; cfr. Ger 7,32) oppure, più brevemente Gê-Hinnom (Ne 11,30) da cui il nome “Geènna”. In quel luogo erano avvenuti dei fatti terribili. Lì Achaz aveva sacrificato a Moloc il proprio figlio gettandolo nella fornace (2Re 16,3). Lo stesso fece il re Manasse (2Re 21,6).
Lì c’era il rogo di Tofet su cui avvenivano sacrifici umani « Hanno costruito le alture di Tofet nella valle di Ben-Innòm, per bruciare nel fuoco i loro figli e le loro figlie, cosa che io non avevo mai comandato e che non avevo mai pensato » (Ger 7,31; Is 30,33). Il re Giosia, il re riformatore, ne fece così un luogo impuro (2Re 23,10) dove nessuno avrebbe mai osato abitare o coltivare e men che meno costruire. Divenne a poco a poco la discarica della città dove veniva gettata ogni cosa e dove qualcuno – di tanto in tanto – appiccava fuoco per distruggere l’immondizia. Lì venivano gettati i cadaveri degli animali morti di morte naturale e dunque immangiabili secondo la legge. Luogo dove il verme della putrefazione non moriva mai e il fuoco non si spegneva mai (cfr. Is 66,24).
Possiamo immaginare le mamme di Gerusalemme che indicavano quel luogaccio ai bambini disubbidienti dicendo: “guarda che vai a finire lì!” suscitando subito un moto di salutare terrore. Gesù non teme di parlare dell’Inferno come il risultato naturale del peccato se l’uomo non rientra in sé stesso e, non rendendosi conto di dove conduce la sua ribellione, non si affida alla misericordia e al perdono di Dio. Oggi si parla poco dell’Inferno, si può dire che è quasi sparito dalla predicazione ordinaria. Questo con grave danno dei fedeli per due opposte ragioni. C’è chi, abbandonandosi con falsa sicurezza all’ipotesi di un inferno “vuoto”, si getta in pasto al buonismo e al relativismo ambientale. Ma c’è anche chi, davanti alla stessa ipotesi (che è tutt’altro che sicura) si sente mancare il terreno sotto i piedi, perché la sua faticosa astensione dal peccato poggia solo sulla paura di un terribile castigo certo. Nell’uno come nell’altro caso manca l’essenziale: l’amore, che è una faccenda assolutamente seria.
Dio vuole essere amato, seriamente e realmente, ma non per sola paura. Una riflessione umile su questo brano del Vangelo si rivela allora utilissima.