Nota del 15 marzo 2019
A distanza di quarant’anni riproponiamo – soprattutto ai giovani che non l’hanno potuto leggere a suo tempo per una questione anagrafica! – il saggio di Plinio Corrêa De Oliveira sul tema, per molti versi ancora attuale, dell’importante discorso pronunciato a Puebla da san Giovanni Paolo II.
Plinio Corrêa De Oliveira, Cristianità n. 50-51 (1979)
«Quasi una enciclica»: così è stato definito il discorso rivolto dal regnante Pontefice ai vescovi latinoamericani riuniti a Puebla, in Messico, nel gennaio e nel febbraio di quest’anno. L’importante documento è stato ampiamente commentato dal professor Plinio Corrêa de Oliveira, presidente del consiglio nazionale della TFP brasiliana, in una serie di articoli comparsi sulla Folha de S. Paulo il 26-3, il 7, il 14 e il 26-4 e il 19-5-1979 con il comune occhiello A mensagem de Puebla: notas e comentários, e rispettivamente intitolati A mensagem de João Paulo II e o amanhã que será nosso, A mensagem de Puebla, A finalidade da Igreja face à existència terrena, As «vistosas debilidades da civilização atual» e «Ipoteca social»: só grava a propriedade? Di tali testi forniamo traduzione integrale, come contributo alla comprensione dei problemi che travagliano la Cristianità, la famiglia delle nazioni cristiane.
Diretto all’America Latina e al mondo intero
Il messaggio di Puebla
1. Il messaggio di Giovanni Paolo II e il nostro domani
Ho atteso fino a questo momento il testo ufficiale del messaggio rivolto da Giovanni Paolo II ai vescovi, in apertura della III Conferenza Generale dell’episcopato latino-americano a Puebla, e anche quello del documento approvato giorni dopo dalla quasi totalità dei prelati che hanno preso parte alla votazione finale.
Importanza di Puebla
Con tali testi in mano – l’uno, la chiave di apertura, l’altro, la chiave di chiusura della importante riunione – sarebbe possibile fare una analisi obiettiva di ciò che Puebla rappresenterà per il futuro della Chiesa nel continente latino-americano. E anche per il futuro della Chiesa universale, perché l’America Latina ha oggi raggiunto una tale importanza nella Chiesa, che condiziona in buona misura i passi di questa in tutto il mondo. Per il futuro della umanità, infine, perché la influenza della Chiesa è, a sua volta, così grande in tutte le nazioni – in un modo o nell’altro anche e perfino tra le nazioni non cattoliche -, che condiziona profondamente la storia universale nel nostro secolo.
Descrivendo questo sistema di cerchi di influenza concentrici, mi viene in mente – sia detto di passaggio – una domanda sulla parte non più di tutta l’America Latina, ma del Brasile all’interno di questo sistema. E la risposta mi balza subito agli occhi. Con cento e venti milioni di abitanti, nella loro enorme maggioranza cattolici (molti di essi vogliono solamente esserli, e immaginano di esserli: il che agli occhi di Dio è già meglio di niente), con la sua estensione territoriale da continente, confinante con tutte le nazioni sudamericane, eccettuate il Cile e l’Ecuador, il Brasile può avere, in più di una ipotesi, all’interno del mondo latino-americano, un peso paragonabile a quello che quest’ultimo sta acquistando all’interno della Chiesa. Perciò si può dire con ogni verosimiglianza che attualmente si possono presentare situazioni nelle quali il destino del mondo sia segnato non solamente dall’America Latina, ma, all’interno di essa, dal Brasile: sta spuntando il secolo XXI.
In tutta questa valutazione, non entrerà il riflesso di qualche mania di grandezza a proposito del Brasile o dell’America Latina?
Nei miei ormai remoti anni di gioventù, circolava di bocca in bocca un aneddoto (o si tratta di un fatto storico, di una autentica battuta di spirito? Non lo so, perché non ho mai avuto tempo per verificarlo), secondo il quale uno dei tre grandi Andrada (1) (non so neppure quale …) era solito dire: «Nel mondo, l’America; in America, il Brasile; in Brasile, San Paolo; a San Paolo, Santos; a Santos, gli Andrada, e tra gli Andrada, io …».
Relativamente all’America e al Brasile, nella prima metà del secolo scorso, questa non era niente di più di una millanteria, spiritosa per il suo stesso stile sfacciato. Sarebbe stata una esagerazione non sfacciata, e quindi meno spiritosa, nei cento anni dal 1850 al 1950. Oggigiorno comincia a essere una verità. E radiosa. E chiaramente non per lo spiritoso Andrada, che la morte ha portato via, ma per il paese che ha contribuito a fondare, e i cui primi passi ha illuminato con il suo talento.
Il richiamo della battuta di spirito di Andrada – che conteneva in qualche misura una penetrante previsione – illumina opportunamente la prospettiva nella quale mi pongo per valutare la importanza di Puebla nella storia attuale.
Ma la grande storia – parlo della Storia, con la «s» maiuscola, scritta per il pubblico di cultura media o anche inferiore – ricorda solamente le linee generali degli avvenimenti.
«Aquila non capit muscas», l’aquila non prende le mosche. In campo culturale, i particolari, per il grande pubblico, sono mosche, e costituiscono spesso preziose gocce di nettare per gli specialisti.
Situato da questo punto di vista, non intendo entrare nella analisi dei particolari di Puebla, cioè della confusione che vi è stata, o non vi è stata. È mia intenzione analizzare solamente i due grandi elementi dell’avvenimento, l’appello del Papa e la risposta dei vescovi.
Ho aspettato questa risposta fino a ora, ma, nel momento in cui scrivo, non ha ancora visto la luce. Veramente il Signor cardinale Arns ha preso la iniziativa di pubblicarla presso le Edições Paulinas; ma ancora senza gli eventuali mutamenti che vi faccia Giovanni Paolo II. Quindi si tratta di un testo provvisorio, che sarà forse interessante scorrere, ma che non ha la portata e la force de frappe del testo definitivo. E in questa attesa, l’argomento sta già scomparendo all’orizzonte, sostituito dalla gazzarra dell’ayatollah Khomeini, dal confuso e drammatico litigio in Indocina, e dalle ombre e dalle grida che sembrano cominciare a perturbare l’ambiente brasiliano.
Perciò, in questa serie di articoli, mi limito alla analisi della allocuzione di Giovanni Paolo II. Mi baserò sul testo in spagnolo distribuito dallo stesso ufficio stampa della Conferenza di Puebla (2).
In quale direzione si volgevano gli spiriti nell’era costantiniana
Non è possibile che il lettore comune comprenda l’allocuzione pontificia senza ricordare preliminarmente un fatto che si ripete nella vita quotidiana di tutti noi indefinitamente. Lo descrivo in due parole.
Nel cosiddetto tempo della Chiesa costantiniana – ossia, più o meno, fino all’inizio del Concilio Vaticano II -, tutta la insistenza dei predicatori, quando parlavano al mondo, si rivolgeva essenzialmente ai temi religiosi e morali.
Nelle omelie, nei ritiri spirituali, nelle conferenze ai membri delle associazioni religiose, nelle lezioni di catechismo come nei corsi medi e superiori di formazione religiosa per laici, la maggior parte degli argomenti era di natura religiosa o morale.
Di tali materie si curava anche la maggiore parte delle opere che riempivano le librerie cattoliche, oppure quanto era possibile leggere sulle riviste e sui giornali cattolici.
I temi morali riguardavano, il più delle volte, il comportamento individuale. Di fatto, però, le regole morali hanno un ambito più vasto. Esse dettano anche il comportamento dei gruppi e delle classi sociali, delle famiglie, delle istituzioni e delle nazioni.
Questo faceva sì che, di quando in quando – con una parsimonia, a mio modo di vedere, assolutamente esagerata -, si parlasse anche di problemi collettivi, e, tra di essi, della questione sociale. In questo ultimo termine si includevano, di fatto, questioni molto diverse: rapporti tra padroni e dipendenti, tra ricchi e poveri, argomenti riguardanti la sanità collettiva, la educazione, l’alfabetizzazione, ecc. ecc.
Mutamento di indirizzo nell’era post-conciliare
Aperta l’era post-conciliare, in un numero crescente di istituzioni e di ambienti religiosi tutto questo è mutato rapidamente. I temi propriamente religiosi sono diventati sempre più rari. Tra i temi morali, quelli di ambito individuale si sono venuti rarefacendo per fare posto a questioni politico-sociali ed economiche, con i loro complessi e infiniti sviluppi. E, considerando il contenuto delle esposizioni di questo indottrinamento post-conciliare – ossia post-costantiniano – e il modo con cui era presentato, molti osservatori provavano la impressione che nella Chiesa fosse cambiato qualcosa di fondamentale.
Che cosa? Nell’era costantiniana sembrava chiarissimo che la missione della Chiesa era volta principalmente al di là di questo mondo. Essa aveva il fine supremo di dare gloria a Dio attraverso la salvezza eterna delle anime.
È chiaro che, se il suo fine era soprattutto questo, tuttavia non era solamente questo. La Chiesa non si accontentava della glorificazione di Dio nell’altra vita, ma pregava e insegnava: «Gloria al Padre e al Figliuolo e allo Spirito Santo, come era nel principio, e ora, e sempre, e nei secoli dei secoli».
«Ora», ossia in questa vita. La gloria di Dio nella esistenza terrena si otteneva attraverso la professione della verità e la pratica della virtù in questo mondo. Il che comportava la lotta all’errore e al male. Su questa terra, la Chiesa era militante.
Era tuttavia chiaro che, per la gloria di Dio su questa terra, non bastava che professassero la fede e praticassero la virtù gli individui: era necessario che, di conseguenza, ma su di un piano che si può chiamare secondario, lo facessero anche le famiglie, le classi sociali, le nazioni, ecc.
«Secondario» è un aggettivo che si applica con frequenza a cose di scarsa importanza. Ma può anche riferirsi a cose molto elevate, che sono considerate come secondarie solamente a confronto con altre ancora più elevate. È il caso della questione sociale all’interno dell’insegnamento della Chiesa. Essa è secondaria nel senso che non concerne direttamente e immediatamente il fine ultraterreno dell’uomo, ma condiziona potentemente la salvezza o la perdizione eterna degli uomini, e la fedeltà delle nazioni. Essa fa parte del nocciolo dei temi relativi alla gloria di Dio in questo mondo. Perciò ha, nell’insieme degli argomenti religiosi, una importanza «secondaria», però elevatissima.
Mi meraviglio del mio stesso linguaggio …
Rileggo rapidamente quanto ho appena scritto, e mi meraviglio dell’imperfetto in cui ho coniugato certi verbi: la Chiesa «faceva», «insegnava», ecc., come se essa, la Chiesa immortale, non insegnasse e non facesse più le stesse cose. Il che è assurdo ammettere.
Correggo, allora, questo imperfetto? Niente sarebbe più semplice. Ma invece di correggerlo, preferisco spiegare. La grande parte del clero non insegna o non fa più queste cose a tale punto che, anche se si sa di vescovi e di sacerdoti, che con segnalata costanza le insegnano e le fanno, questo inadeguato imperfetto mi esce involontariamente dalla penna. E la mano scrive inavvertitamente il contrario di quanto la intelligenza e il cuore sosterrebbero a prezzo dello stesso sangue … In questo modo si può misurare tutto il male che mutamenti del genere fanno facilmente alle anime con un minore esercizio nella meditazione e nello studio di tali temi.
Questa osservazione lascia vedere per quale ragione Giovanni Paolo II ha posto questo tema – relativo alla importanza di quanto è celeste e di quanto è terreno nella Chiesa – come punto centrale della sua allocuzione ai vescovi riuniti per la Conferenza di Puebla.
2. Il messaggio di Puebla
Nel messaggio diretto ai vescovi, in apertura della Conferenza dell’episcopato latino-americano a Puebla, Giovanni Paolo II ci dà la ragione del cambiamento che si è operato nella Chiesa – come ho scritto nell’articolo precedente – e dal quale risulta che una parte impressionante dei vescovi e dei sacerdoti non sembra più volta alla finalità eterna della sua missione, ma esclusivamente alla vita terrena.
Giovanni Paolo II: la Verità su Gesù Cristo
In un brano, sotto il titolo Verità su Gesù Cristo, il Pontefice mostra che alla radice di questo cambiamento sta un errore dottrinale prodotto da «”riletture” del Vangelo» («rilettura» è il termine moderno e lezioso con cui certi teologi fanno riferimento a una reinterpretazione). Queste «riletture» sono il «risultato di speculazioni teoriche ben più che di autentica meditazione della parola di Dio», e causano grave danno alle anime.
A che cose portano tali «riletture»? Il Pontefice le enumera: «In alcuni casi, o si tace la divinità di Cristo, o si incorre di fatto in forme di interpretazione contrarie alla fede della Chiesa».
Contrarie in che cosa? Giovanni Paolo II prosegue: per tali interpreti, «Cristo sarebbe solamente un “profeta”, un annunciatore del Regno e dell’amore di Dio, ma non il vero Figlio dì Dio, e non sarebbe pertanto il centro e l’oggetto dello stesso messaggio evangelico».
Come ben vede il lettore, in materia di fede cattolica queste negazioni equivalgono a una bomba all’idrogeno. Infatti, a che cosa resta ridotta la Chiesa di Gesù Cristo, senza Gesù Cristo Uomo-Dio?
Ovviamente, dimenticata o negata la divinità di Gesù Cristo, scompare la finalità ultraterrena della Chiesa, tanto sottolineata nell’era costantiniana e pre-conciliare.
Ne nasce un’altra sequela di errori. Se la Chiesa non forma più le anime per il cielo, scompaiono tutti gli insegnamenti e le attività che metteva in primo piano nell’era costantiniana, cedendo il posto completamente – o quasi – a quanto per essa era «secondario», – ossia all’indottrinamento e all’azione sociali.
Questa innovazione è intimamente connessa con la «rilettura evangelica» dei novatori che, come dice Giovanni Paolo II, pretendono di «mostrare Gesù come impegnato politicamente, come uno che combatte contro la dominazione romana e contro i potenti, anzi implicato in una lotta di classe». Come causa della morte di Gesù Cristo, i citati «rilettori» adducono «la soluzione di un conflitto politico» e tacciono «la sua volontà di consegnarsi e perfino la coscienza della sua missione redentrice».
A tale riguardo, Giovanni Paolo II insegna che «questa concezione di Cristo come politico, rivoluzionario, come il sovversivo di Nazareth, non si compagina con la catechesi della Chiesa».
Come si vede, tali errori potrebbero difficilmente essere più radicali e più gravi. Dove circolano? Per esempio, in America Latina. Il che porta Giovanni Paolo II a questo avvertimento categorico: «”l’evangelizzazione nel presente e nel futuro dell’America Latina” non può cessare di affermare la fede della Chiesa». E a osservare più avanti: «Nell’ampia documentazione, con la quale avete preparato questa Conferenza, particolarmente nei contributi di numerose Chiese, si avverte talvolta un certo malessere rispetto all’interpretazione stessa della natura e della missione della Chiesa. Si allude per esempio alla separazione, che alcuni stabiliscono, fra Chiesa e Regno di Dio. Questo, svuotato del suo contenuto totale, viene inteso in senso assai secolarizzato: al Regno non si arriverebbe mediante la fede e l’appartenenza alla Chiesa, ma attraverso un mero cambio strutturale e l’impegno socio-politico. Laddove vi è un certo tipo di impegno e di prassi per la giustizia, qui sarebbe presente il Regno. Si dimentica in tal modo che: “la Chiesa […] riceve la missione di annunziare e di instaurare in tutte le genti il Regno di Cristo e di Dio, e di questo Regno costituisce in terra il germe e l’inizio” (L.G. 5)».
Sugli effetti di questi errori, il Pontefice ricorda le parole del suo predecessore Paolo VI: «se il Vangelo che proclamiamo appare lacerato da discussioni dottrinali, da polarizzazioni ideologiche o da condanne reciproche tra cristiani in balia delle loro diverse teorie su Cristo e sulla Chiesa, ed anche a causa delle loro diverse concezioni su la società e le istituzioni umane, come potrebbero coloro cui è rivolta la nostra predicazione non sentirsene turbati, disorientati, se non addirittura scandalizzati? (E.N. 77)».
E, posto che è necessario predicare la verità su Gesù Cristo, bisogna fare lo stesso quanto alla missione della Chiesa. Infatti, come è già stato detto, siccome Cristo è Dio, questa missione è anzitutto ultraterrena. In questo modo il Pontefice attira l’attenzione dei vescovi sul fatto che, «Maestri di Verità, si spera da voi che proclamiate senza sosta, e con speciale vigore in questa circostanza, la verità circa la missione della Chiesa, oggetto del Credo che professiamo, e campo imprescindibile e fondamentale della nostra fedeltà».
Ricapitolazione
La estensione di questo articolo e del precedente invita, prima di procedere, a condensare rapidamente quanto vengo dicendo:
a. all’inizio ho mostrato tutto il peso del continente latino-americano negli affari ecclesiastici del mondo di oggi. E, ipso facto, anche in quelli del mondo temporale;
b. ho così sottolineato la portata rilevante della riunione della Conferenza Episcopale Latino-Americana (CELAM) a Puebla, che ha raccolto, per studi e deliberazioni, rappresentanti degli episcopati di tutte le nazioni dell’America Latina;
c. ho poi affrontato il tema delle trasformazioni attraverso le quali è passata, ultimamente, l’azione dottrinale di un considerevole numero di ecclesiastici: dalla predicazione di Gesù Cristo, Uomo-Dio, fondatore di una Chiesa con una finalità ultraterrena, sono passati alla omissione o alla negazione di Gesù Cristo Uomo-Dio, e conseguentemente alla negazione del fine ultraterreno della Chiesa, la cui meta sarebbe assolutamente terrena. Dalla affermazione di Gesù Cristo Uomo-Dio deriva anche la necessità di formare per lui, e per la vita eterna, ogni anima. A confronto con questa azione assolutamente spirituale e individuale, la osservanza dei precetti divini da parte delle società temporali ha una funzione «secondaria», ma elevatissima;
d. quindi ho mostrato, con le necessarie citazioni, che l’insegnamento di Giovanni Paolo II su questa importantissima materia è incompatibile con gli errori sorti in proposito, e come il Pontefice sottolinea la gravità di tali errori, e lamenta la diffusione che hanno trovato nell’America Latina.
Punto di partenza
Come punto di partenza per il prossimo commento, richiamo ora i testi in cui Giovanni Paolo II mostra che i propugnatori di una Chiesa puramente terrena hanno una peculiare nozione di Gesù Cristo, «non il vero Figlio di Dio», ma un «profeta», «un annunciatore del Regno e dell’amore di Dio», e più precisamente un profeta e un annunciatore di un regno che, a sua volta, ha caratteristiche particolari: è un leader politico in rivolta contro la dominazione romana, un «rivoluzionario» implicato in una «lotta di classe»; insomma, è il «sovversivo di Nazareth».
Come si vede, anche qui «un vortice chiama l’altro» (3), e chi nega Gesù Cristo come Uomo-Dio e lo confina nel puro campo temporale, gli attribuisce, persino in questo campo, una missione diametralmente opposta agli specifici effetti terreni della sua missione soprannaturale.
3. La finalità della Chiesa di fronte alla esistenza terrena
Commentando la allocuzione di Giovanni Paolo II in apertura della Conferenza di Puebla, ho trattato fino a questo punto della parte essenzialmente religiosa del messaggio. Passo ora alla parte che si interessa della società terrena.
Questa divisione di temi è strettamente conforme alla struttura della prima parte del testo pontificio, nella quale si distinguono tre grandi blocchi, intitolati rispettivamente Verità su Gesù Cristo, Verità sulla missione della Chiesa e Verità sull’uomo.
Giovanni Paolo II dà la precedenza, nell’ordine della esposizione, alla Verità su Gesù Cristo, perché è infinitamente più importante. A essa segue la Verità sulla missione della Chiesa. Infine, la Verità sull’uomo, che può essere messa bene a fuoco soltanto se esposta alla luce della Verità su Gesù Cristo. Un altro titolo perché tocchi a quest’ultima la precedenza.
Dalla Verità su Gesù Cristo derivano, in primo luogo, gli insegnamenti relativi alla Chiesa, ossia alla società spirituale e soprannaturale. E, in secondo luogo, gli insegnamenti sulla società naturale e temporale, ossia sulle nazioni, con la galassia di microsocietà che le costituiscono.
Ma il campo di questi insegnamenti non si chiude qui. A loro volta, le nazioni e le società che le compongono, sono costituite, le une e le altre, dall’uomo e per l’uomo.
Gesù Cristo è il vertice dell’ordine spirituale e soprannaturale. L’uomo è il vertice della società temporale.
Per questo, è assolutamente logico che il messaggio centri sull’uomo le sue considerazioni relative all’ordine temporale.
La vita terrena, fine unico della Chiesa?
Nella prospettiva degli inspiegabili cattolici (… cattolici?) che omettono la divinità di Gesù Cristo oppure la negano, poiché la Chiesa non mira al Regno di Dio, essa può mirare solamente al Regno dell’Uomo.
Questa esclusione del Regno di Dio, se presentata in modo assolutamente categorico, può urtare il pubblico cattolico, la cui conquista hanno di mira questi strani messianisti di un Regno senza il Messia. Sentendolo, essi presentano la loro tesi con un sotterfugio: curarsi esclusivamente del Regno dell’Uomo equivarrebbe a curarsi implicitamente del Regno di Dio, poiché questo si identificherebbe con quello.
Nella parte del messaggio in cui tratta della Verità sulla missione della Chiesa, Giovanni Paolo II demolisce questo sotterfugio, e a questo scopo cita, inoltre, una delle catechesi di Giovanni Paolo I: «è un errore affermare che la liberazione politica, economica e sociale coincide con la salvezza in Gesù Cristo; che il “Regnum Dei” si identifica con il “Regnum hominis”».
Resta così evidente che trattare solamente del «Regnum hominis», comporta negare in un modo o nell’altro il «Regnum Dei».
Questo avvertimento spiega meglio il modo con cui Giovanni Paolo II espone la Verità sull’uomo.
Subito all’inizio il Pontefice ricorda che la verità piena sull’uomo può essere conosciuta soltanto nella prospettiva religiosa, e alla luce di Gesù Cristo. Infatti essa non si può «ridurre ai principi di un sistema filosofico o a una pura attività politica».
La fedeltà a queste asserzioni costituisce per il cattolico un imperativo di coscienza, soprattutto quando è sfidato da «tanti altri umanesimi, spesso rinchiusi in una visione dell’uomo strettamente economica, biologica e psichica». Come si vede, il marxismo calza in questa definizione come la mano nel guanto. Di fronte a questa sfida, il cattolico talora tace, a ciò trascinato «per timore o per dubbio, per essersi lasciato contaminare da altri umanesimi, per mancanza di fiducia nel proprio messaggio originale».
A questo punto bisogna sottolineare che la descrizione del cattolico che omette di «proclamare la Verità sull’uomo, verità che [la Chiesa] ha ricevuto dal suo stesso maestro Gesù Cristo», è a sua volta come un altro guanto nel quale calza perfettamente il cattolico mondano, superficiale, vergognoso di non essere all’ultima moda … e di non essere comunista. Oppure, anche, intimidito di fronte alle pressioni e alle minacce dei rossi.
Religione cattolica e marxismo
Queste considerazioni sulla parte riguardante la Verità sull’uomo mostrano chiaramente come la preoccupazione di Giovanni Paolo II è stata quella di liberare da qualsiasi confusione la linea di demarcazione tra la religione di Gesù Cristo e la filosofia di Marx.
Mi riporto ancora una volta alla parte del messaggio relativa a Gesù Cristo: Giovanni Paolo II parla di cattolici che omettono oppure negano la divinità del Messia, e di altri che lo presentano come un rivoluzionario. A questo proposito sorge un problema: chi nega la divinità di Gesù Cristo è costretto dalla logica a vedere in lui un rivoluzionario?
Assolutamente parlando, una cosa non porta all’altra. Almeno se si prende la parola «rivoluzionario» nel suo senso moderno di sovversivo, di avversario violento dell’attuale ordine socio-economico.
Qual è, allora, il legame tra la negazione o la omissione di Gesù Cristo, e la impostazione marxista?
Giovanni Paolo II non lo dice. Ma tale legame apparirà chiaro, se esamineremo il problema dall’altro lato.
Se il negatore di Gesù Cristo non è necessariamente un marxista, il marxista è necessariamente un negatore di Gesù Cristo. Di fronte al vasto genere dei negatori di Gesù Cristo, il marxista non si identifica con il genere, ma si inserisce nel genere come una specie di esso. Attualmente, la specie più attiva, più organizzata, più potente. Se ne ricava la ragione per cui, trattando degli errori sull’uomo in genere, Giovanni Paolo II ha fatto riferimento, con insistenza, agli specifici errori del marxismo in questa materia.
La posizione della Chiesa di fronte alla dignità umana, alla promozione umana e alla giustizia
«Se la Chiesa si rende presente nella difesa o nella promozione della dignità dell’uomo, lo fa in conformità con la sua missione, che, pur essendo di carattere religioso e non sociale o politico, non può fare a meno di considerare l’uomo nel suo essere integrale».
Con queste parole Giovanni Paolo II diversifica la posizione della Chiesa di fronte alla dignità umana dalla posizione di un’altra corrente che non menziona esplicitamente. Quale sarà? Non è difficile intravedere che è quella costituita dal marxismo, quella che fa più clamore e che è più evidente, come anche quella che differisce di più dalla posizione cattolica … e ciò nonostante quella che cerca di più di confondersi con essa.
Sempre senza menzionare esplicitamente il marxismo, Giovanni Paolo II passa a indicare nella parabola del Buon Samaritano un fondamento della posizione della Chiesa di fronte alla dignità umana, come pure di fronte a due temi collegati a questo, che sono la promozione umana e la giustizia.
E mostra che, su tali argomenti, la sua attenzione non si volge soltanto a quanto è celeste, ma anche a ciò che è terreno. Così, il Pontefice insegna che «tra evangelizzazione e promozione umana vi sono legami molto forti di ordine antropologico, teologico e caritativo (cf. E.N. 31)», e che, dalla «connessione reciproca, che nel corso dei tempi si stabilisce tra, il Vangelo e la vita concreta, personale e sociale dell’uomo (E.N. 29)», la Chiesa trova il mezzo per una evangelizzazione che senza ciò non sarebbe completa.
In altri termini, contrariamente a quanto di essa dicono i marxisti, la Chiesa non disdegna, nella evangelizzazione, tutto il capitale scientifico relativo all’uomo e al mondo. Essa lo accoglie avidamente, senza perciò arretrare dalla sua posizione fondamentale e molto ben definita, che consiste nell’analizzare questo capitale alla luce della fede, purificandolo così dagli errori che contenga, illuminandolo con le superiori verità di ordine soprannaturale, e facendo librare i suoi insegnamenti infallibili sulle a certezze r,, talora assai preziose, ma talora anche assai manchevoli, professate dall’uomo.
«Servizio dell’uomo» e «servizio dell’uomo»
Il messaggio passa, poi, a un altro tema scottante. Per altro non meno scottante di quelli precedenti. È la questione del «servizio dell’uomo». «L’azione della Chiesa in campi come quello della promozione umana, dello sviluppo, della giustizia, dei diritti della persona, vuole rimanere sempre al servizio dell’uomo, e dell’uomo così come lo vede nella visione cristiana della sua antropologia. Essa, infatti, non ha bisogno di ricorrere a sistemi ed ideologie per amare, difendere e collaborare alla liberazione dell’uomo: è al centro del messaggio, del quale essa è depositaria e banditrice, che trova ispirazione per operare in favore della fraternità, della giustizia, della pace, contro tutte le dominazioni, schiavitù, discriminazioni, violenze, attentati alla libertà religiosa, aggressioni all’uomo, e quanto attenta alla vita (cf. G.S. n. 26, 27 e 29)».
Si vede chiaramente quanto questa concezione cristiana del servizio dell’uomo sia dissonante rispetto a quella che ha alla base una concezione marxista, o «cattolico» materialista.
Infatti, come è già stato detto, nel caso si ometta Gesù Cristo, e si giunga anche a negarlo, l’azione della Chiesa non può essere considerata come al servizio di Dio. Allora, a essa rimane soltanto la possibilità di affermarsi al servizio dell’uomo.
Ciò posto, la Chiesa avrebbe come ragione di essere un fine strettamente terreno: servire il genere umano, la umanità.
Il concetto di «servizio» contiene quello di operare abitualmente in favore di qualcuno. E comporta che il servitore conosca ciò che conviene a chi è servito. Senza di ciò il servizio non è «in favore» di qualcuno, ma gli può essere innocuo, oppure persino nocivo.
A sua volta, questo comporta che la Chiesa abbia una nozione chiara di quanto conviene al genere umano, e lotti con forza a favore di questa convenienza.
Così si spiega come, nel caso si ometta la divinità di Gesù Cristo e il fine ultraterreno della Chiesa, questa nuova teologia di cui parla Giovanni Paolo II porti il sacerdote a utilizzare tutti gli atti della vita ecclesiastica, come prediche, omelie, liturgia, ecc., per interessarsi esclusivamente di temi terreni. E in tal modo che, se entra in qualcuno di questi atti un riferimento a temi ultraterreni, ciò accade solamente come condiscendenza verso certi settori «arretrati» del pubblico. Ma, di fronte ad ascoltatori completamente «aggiornati», possono essere trattate solamente materie terrene.
In questa concezione, il «Regno di Dio» si riduce, in ultima analisi, al «Regno dell’Uomo». E la predicazione della parola di Dio si trasforma in predicazione socioeconomica … rivoluzionaria, come vedremo poi.
4. Le “debolezze vistose dell’attuale civiltà”
Qual è la visione dell’uomo, e di quanto gli conviene, adottata dalla nuova corrente di cui parla Giovanni Paolo II nella sua allocuzione ai vescovi latino-americani, in apertura della Conferenza di Puebla?
Nesso tra ateismo e collettivismo
Presa la domanda nei suoi termini generici, il nuovo umanesimo porta logicamente a una posizione di destra di centro o di sinistra? Il messaggio non lo dice. Esso, semplicemente, nella parte relativa alla Verità sull’uomo affronta il sinistrismo – nelle sue diverse sfumature – come il contenuto del nuovo umanesimo, senza specificare se questo nesso risulta dalle premesse stesse del sistema di errori che condanna, oppure se si deve a una di quelle coincidenze fortuite, che non sono rare nella storia.
A mio modo di vedere, non si tratta di una coincidenza, ma, molto naturalmente, di una conseguenza logica. Chi non crede in Dio, ma solamente nell’uomo, è portato a vederne la completa realizzazione non in particelle della umanità come un individuo, una classe sociale o una nazione, ma nell’insieme della umanità, come tutto formato dalla universalità degli uomini.
A loro volta, gli abiti mentali democratici dei nostri giorni, completamente consonanti con questa filosofia, portano a vedere nel pronunciamento della maggioranza la voce autentica del tutto che è la umanità. Ne segue che la organizzazione economica e sociale dovrebbe mirare a distribuire in parti uguali l’insieme dei beni della terra all’insieme degli uomini. E attribuire il comando politico (finché la evoluzione non porti alla soppressione dello stesso comando politico, esso stesso opposto alla uguaglianza completa) alla maggioranza. Insomma, tesi essenziali della dottrina marxista.
Critica all’umanesimo ateo
Si spiega facilmente come, trattando della Verità sull’uomo, Giovanni Paolo II condanni queste posizioni dottrinali: «Forse una delle debolezze più vistose dell’attuale civiltà consiste nella visione inadeguata dell’uomo. La nostra è, senza dubbio, l’epoca nella quale molto si è scritto e parlato intorno all’uomo, l’epoca degli umanismi e dell’antropocentrismo. Tuttavia, paradossalmente, è anche l’epoca delle angosce più profonde dell’uomo circa la propria identità ed il proprio destino, della retrocessione dell’uomo a livelli prima insospettati, l’epoca di valori umani conculcati come mai in precedenza.
«Come si spiega questo paradosso? Possiamo dire che si tratta del paradosso inesorabile dell’umanesimo ateo. È il dramma dell’uomo amputato di una dimensione essenziale del proprio essere – la sua ricerca dell’infinito – e posto così di fronte alla peggiore riduzione del medesimo essere».
E più avanti: «La Chiesa possiede, grazie al Vangelo, la verità sull’uomo. Questa si incontra in un’antropologia, che la Chiesa non cessa di approfondire e di comunicare. L’affermazione primordiale di tale antropologia è quella dell’uomo come immagine di Dio, irriducibile ad una semplice particella della natura o ad un elemento anonimo della città umana».
Giovanni Paolo II conclude: «Questa verità completa sull’essere umano costituisce il fondamento della dottrina sociale della Chiesa, così com’è la base della vera liberazione. Alla luce di tale verità, l’uomo non è un essere sottomesso ai processi economici e politici, ma questi stessi processi sono ordinati all’uomo e sottoposti a lui».
Come si vede, ancora una volta (e non è eccessivo insistere), contrariamente a quanto desidererebbero molti «cattolici»-marxisti, la Chiesa ripudia la filosofia di Marx come incompatibile con la sua dottrina e con la sua azione a favore dell’uomo nel campo terreno.
Un battente chiuso
Evidentemente, questa posizione di Giovanni Paolo II è di grande portata, dal momento che gli ambienti cattolici sono ampiamente infiltrati da «apostoli» della doppia tesi secondo cui la Chiesa esiste solamente al servizio dell’uomo e soltanto Marx ha capito e ha insegnato correttamente che cosa è l’uomo, e come servirlo.
Tuttavia, si mostrerebbe considerevolmente anacronistico chi affermasse che, fatto questo, Giovanni Paolo II ha esaurito tutto il tema dei rapporti tra la religione cattolica e il comunismo.
Infatti, proprio ai nostri giorni, l’ondata comunista più moderna consiste nell’ammettere che un non marxista possa propugnare, con fondamento filosofico non marxista, il regime socio-economico del comunismo, e collaborare validamente con i marxisti alla instaurazione di questo regime.
E che, per molti leaders italiani, francesi e spagnoli dell’eurocomunismo, essere comunista non comporta necessariamente l’accettazione di tutta la filosofia marxista.
In questa concezione – ripeto – un comunista si caratterizza per la sua adesione al regime socio-economico del comunismo, ma è libero di cercare in qualsiasi sistema religioso o ateo la fondazione filosofica che più gli sembri adeguata a giustificare le proprie preferenze socio-economiche.
Chi, con le nozioni attuali su questa materia, legge il messaggio di Giovanni Paolo II non può tralasciare di chiedersi se in questo documento, in cui è così chiara la posizione antimarxista, vi è anche una condanna del regime comunista in quanto tale, facendo astrazione dalla filosofia di Marx.
La risposta sembra essere che non vi è nel messaggio tale condanna. Ossia, per il collettivismo marxista il messaggio chiude un battente della porta. Per il collettivismo non strettamente marxista lascia aperto l’altro battente.
5. “Ipoteca sociale”: grava soltanto sulla proprietà?
Nella parte finale del suo messaggio alla III Conferenza della CELAM, Giovanni Paolo II dice che, fedele all’impegno evangelico, «la Chiesa vuole mantenersi libera di fronte agli opposti sistemi, così da optare solo per l’uomo».
In via di principio, nessuna corrente animata dal rispetto per sé stessa direbbe il contrario, e cioè che non opta per l’uomo ma per qualche sistema. E questo, pertanto, persino anche a detrimento dell’uomo.
Quali sono questi «opposti sistemi» tra i quali il messaggio si rifiuta di optare? Di fronte al panorama ideologico e politico dei nostri giorni, sembra trattarsi del capitalismo e del comunismo.
Sorge allora una domanda. All’interno di questo contesto, che cosa significa precisamente un rifiuto di opzione tra regimi? Presi in considerazione gli insegnamenti tradizionali della Chiesa sul comunismo e sul capitalismo, è fuori di dubbio che, avendo essa critiche da rivolgere all’uno e all’altro, quelle che ha relativamente al regime comunista sono così più ampie e gravi rispetto a quelle che ha relativamente al regime capitalista, che il rifiuto di opzione richiede, a questo punto, di essere necessariamente sfumato:
a. la Chiesa non opta per nessuno, nel senso che ciascuno di essi contiene elementi incompatibili con essa;
b. però, le incompatibilità con uno dei regimi sono tanto più ampie di quelle che ha con l’altro, che, se fosse costretta dalle contingenze a considerare come male minore la instaurazione dell’uno o dell’altro, essa dovrà optare esplicitamente per quello che costituisce un male molto minore (benché, non per questo, un male piccolo).
Ora, il tratto di Giovanni Paolo II appena citato, per il fatto di essere molto sommario, da solo non fornisce base sufficiente per una tale affermazione. Tuttavia, in un altro passo, immediatamente seguente, il messaggio tocca la questione più da vicino: «Nasce di qui [dalla opzione per l’uomo] la costante preoccupazione della Chiesa per la delicata questione della proprietà».
Il diritto di proprietà
Il Pontefice passa a dimostrare che questa preoccupazione è di tutti i tempi. E pertanto cita sant’Ambrogio (secolo IV) e san Tommaso di Aquino, la cui «vigorosa dottrina» è stata «tante volte riaffermata». Parla poi dei documenti pontifici dei «nostri tempi», menzionando nominatamente le encicliche Populorum progressio e Mater et Magistra. E conclude che questi insegnamenti devono essere ascoltati «nella nostra epoca, quando alla ricchezza crescente dei pochi corrisponde parallelamente la miseria crescente delle masse».
Visti nel loro lungo insieme tutti questi insegnamenti a cui Giovanni Paolo II fa riferimento, e fuori di dubbio che essi affermano il principio della proprietà privata, la cui negazione è assolutamente essenziale per qualsiasi tipo di collettivismo, marxista in senso stretto o no.
«Fuori di dubbio» oggettivamente, è chiaro. Infatti, soggettivamente, nella nostra epoca, di quasi tutto si può dire che non è «fuori di dubbio». Ossia, non mancano coloro che danno a certi «scritti dei Padri della Chiesa, nel corso del primo millennio del cristianesimo», così come alla Populorum progressio e alla Mater et Magistra una interpretazione che lascia gravemente limitato, quando non zoppicante, il principio della proprietà privata.
Così molti, forse, troveranno in queste parole di Giovanni Paolo II un pretesto soggettivo per continuare a professarsi contrari alla proprietà privata, o pressappoco.
Con alcune poche frasi, il Pontefice avrebbe potuto demolire questa interpretazione, fonte di dolorosi conflitti di scuole di pensiero tra i fedeli. Spiace che non lo abbia fatto. Mi resta il diritto di desiderare che lo faccia alla prima occasione.
La funzione sociale: soltanto della proprietà?
Giovanni Paolo II non si arresta a questo, in materia di proprietà privata.
Nel paragrafo immediatamente seguente, afferma che per queste sproporzioni tra ricchezze e miserie acquista «carattere urgente l’insegnamento della Chiesa, secondo cui su tutta la proprietà privata grava una ipoteca sociale».
Questa è, infatti, una grande verità, già insegnata da diversi Pontefici precedenti. Si può dire che la funzione sociale della proprietà è giunta a essere un luogo comune, uno slogan di scrittori cattolici, e persino non cattolici, su problemi sociali ed economici.
Anche a questo proposito, tuttavia, sembra che le situazioni moderne siano tali da richiedere una maggiore precisione. A forza di ripetersi questo slogan, questo venerabile slogan, si è formata nello spinto di molte persone la impressione che l’unico diritto ad avere una funzione sociale sia quello di proprietà. E questo diritto fa una figura rachitica, se confrontato con gli altri diritti umani. Infatti, è l’unico sul quale peserebbe la «ipoteca» della funzione sociale. Sugli altri diritti non peserebbe ipoteca alcuna. Ora, in realtà, tutti i diritti hanno una funzione sociale. Sono tutti «ipotecati» da questa funzione. Quello di lavoro, per esempio.
E si sarebbero evitati gravi inconvenienti se tutti i titolari di altri diritti si fossero ricordati di questa «ipoteca». Così, il diritto di sciopero non avrebbe portato, mesi or sono, i medici, gli infermieri e i funzionari di un importante ospedale di Napoli ad abbandonare il lavoro, lasciando i loro malati in una situazione tragica, se avessero saputo che la bella professione a cui si dedicano non ha soltanto la funzione di assicurare loro la sussistenza, ma anche quella di vegliare sulla vita degli ammalati: ossia, non solamente di quelli che erano nello loro mani al momento dello sciopero, ma anche di quelli che, formando il corpo sociale, avessero avuto bisogno delle loro cure.
Nel momento in cui il diritto di proprietà, riconosciuto dal Pontefice (perché, chi insegna che questo diritto ha una funzione, presuppone che tale diritto esista: infatti, se non esistesse, questa funzione resterebbe sospesa nel vuoto), subisce la maggiore contestazione della storia, sarebbe importante che, da parte della Chiesa, protettrice di tutti i diritti, esso fosse accuratamente liberato da questa falsa apparenza di rachitismo, quasi di semi-illegittimità, con cui le situazioni lo vanno sfigurando.
Queste non sono aspirazioni soltanto mie, ma di milioni di fedeli, gravemente preoccupati per il pericolo comunista.
Dio voglia che a esse si mostri sensibile qualche nuovo documento di Giovanni Paolo II.
Venendo alle considerazioni finali di questo così lungo commento, passo sotto silenzio la parte relativa ai diritti umani. Infatti, su di essi non vi sono (se non quanto alla loro più elevata fondazione dottrinale) dispute teoriche particolarmente attuali e scottanti.
Ed entro, così, nell’argomento finale.
La teologia della liberazione
Indubbiamente il corpo di dottrine, che Giovanni Paolo II ha condannato, ha per tema la liberazione dell’uomo rispetto alle contingenze, che tanto gli pesano nella esistenza terrena. Siccome queste dottrine sono indirizzate alla teologia – anche se per giungere a conclusioni che sono la negazione di Gesù Cristo in questo campo – risulta che si possono chiamare una teologia della liberazione.
Però, mi sembra eccessivo dedurne che Giovanni Paolo II ha condannato ogni e qualsiasi teologia della liberazione. Al contrario, egli ha fatto salvo, formalmente, un significato di teologia della liberazione. Ecco le sue parole testuali: «La Chiesa ha il dovere di annunziare la liberazione di milioni di esseri umani, il dovere di aiutare affinché si consolidi questa liberazione (E.N. 30); però ha anche il dovere corrispondente di proclamare la liberazione nel suo significato integrale, profondo, come lo ha annunziato e realizzato Gesù (E.N. 31). “Liberazione da tutto ciò che opprime l’uomo, che è però, innanzitutto, salvezza dal peccato e dal maligno, nella gioia di conoscere Dio e di essere conosciuto da Lui” (E.N. 9) […].
«Liberazione che nella missione propria della Chiesa non si riduce alla pura e semplice dimensione economica, politica, sociale o culturale, che non si sacrifica alle esigenze di una qualsiasi strategia, di una prassi o di un risultato a breve termine (E.N. 33).
«Per salvaguardare l’originalità della liberazione cristiana e le energie che è capace di sviluppare, è necessario ad ogni costo, come chiedeva il Papa Paolo VI, evitare riduzioni e ambiguità: “La Chiesa perderebbe la sua significazione fondamentale. Il suo messaggio di liberazione non avrebbe più alcuna originalità e finirebbe facilmente per essere accaparrato e manipolato da sistemi ideologici e da partiti politici” (E.N. 32). Vi sono molti segni, che aiutano a discernere se si tratta di una liberazione cristiana e se, invece, si nutre piuttosto di ideologie che le sottraggono la coerenza con una visione evangelica dell’uomo, delle cose, degli avvenimenti (E.N. 35)».
La portata del messaggio
Tutto questo posto, valutato e ponderato, è il caso di chiedersi che portata ha il messaggio di Giovanni Paolo II per il futuro del Brasile, del continente latino-americano e, di conseguenza, anche del mondo.
A tale proposito, giustizia vuole che si evitino due affermazioni perentorie: – esso ha avuto una portata enorme, perché ha sbarrato il passo al comunismo; – esso non ha avuto nessuna importanza, perché ha lasciato via libera al comunismo.
In effetti, di fronte al comunismo, il messaggio non ha chiuso completamente la strada (e sarebbe così necessario che lo avesse fatto), né ha lasciato completamente aperto il cammino. Come ho detto, ha chiuso uno dei battenti della porta (il che non cessa di essere di una indubbia utilità).
In ultima analisi, la cosa più importante in proposito sta nel sapere quale è stata, di fronte al messaggio, la reazione quasi unanime avuta dai vescovi riuniti a Puebla. E quale sarà, di fronte a questa reazione, l’atteggiamento di Giovanni Paolo II, al cui sovrano apprezzamento è stato sottoposto il documento di più di duecento pagine, che i prelati hanno approvato nell’ultimo giorno di riunione.
Infatti questo documento sarà l’autentica guida che i vescovi devono seguire. E, siccome il messaggio è com’è, alla guida spetterà tracciare gli effettivi indirizzi del futuro.
Non è impossibile che il documento dei vescovi sia pubblicato con il placet di Roma anche prima che si concluda la divulgazione di questa serie di articoli. In ogni caso, mi propongono di commentarlo per i cari lettori della Folha.
Chiaramente, con meno particolari di quelli di questa serie. Infatti, vi è un grado di attenzione, di minuzia di analisi, di ampiezza di commento che, tra i documenti usciti da mano d’uomo, anche quando favoriti dalla grazia di Dio, gli insegnamenti di un Pontefice meritano a titolo assolutamente straordinario.
Plinio Corrêa De Oliveira
Note:
(1) José Bonifacio, Antonio Carlos e Martim Francisco de Andrada e Silva, uomini politici brasiliani, nati a Santos, nell’allora provincia di San Paolo, e vissuti a cavallo tra il secolo XVIII e il XIX (n. d. r.).
(2) Per la traduzione italiana del discorso pontificio ci serviamo di quella fornita da L’Osservatore Romano del 29/30-1-1979. Circa il documento della Conferenza Episcopale Latino-Americana (CELAM) fino a questo momento in Italia non è disponibile una edizione integrale della sua versione definitiva (n. d. r.).
(3) Sul. 41, 8.