Di Stefano Caprio da AsiaNews del 02/04/2022
Uno dei primi segnali che la politica russa stava virando verso una forma piuttosto aggressiva di nazionalismo fu nel 2002 l’espulsione di diversi missionari cattolici dalla Russia, un fatto certamente non eclatante e piuttosto comune alle vicende delle opere missionarie, che devono insediarsi nei Paesi del mondo non sempre ben disposti verso la Chiesa cattolica. Nello specifico, a due anni dall’insediamento del presidente Vladimir Putin, indicava una chiara presa di posizione a difesa dell’Ortodossia come “religione di Stato”, che del resto era già stata elevata al di sopra di tutte le altre confessioni nella legge sulla libertà religiosa riformata nel 1997, su proposta dei comunisti e ispirata dal patriarcato di Mosca.
Nel prologo di quella legge si proclamava che la religione storica della Russia era appunto l’Ortodossia, mentre si riconoscevano come “tradizionali secondarie” altre quattro religioni: l’islam, l’ebraismo, il buddismo e… il cristianesimo, intendendo evidentemente i cattolici e i protestanti, presenti in Russia da secoli, ma distinti dagli ortodossi come un’altra religione. Non si trattava di un lapsus, e infatti quella dizione non è mai stata corretta: l’Ortodossia russa è in effetti una dimensione spirituale distinta, in cui i dogmi cristiani si mescolano ai residui pagani, molto più che negli altri rami del cristianesimo, e soprattutto si riformulano in ideali nazionali universalistici, che indicano la Russia come “popolo salvifico” per l’umanità intera.
Era insomma un segnale non tanto e non solo dei dissapori tra le Chiese d’Oriente e d’Occidente, ma direttamente di un’applicazione alla politica e alla costruzione della nuova Russia (post-sovietica, ma anche post-eltsiniana); la costruzione di un quadro di valori di riferimento e principi basati sulla distinzione e il rifiuto del cosiddetto “Occidente”, compreso nel suo insieme come uno spazio dominato dallo spirito degradato dei nemici della vera fede, dall’Anticristo profetizzato in varie forme dalle scritture bibliche e dalle saghe medievali.
La reazione anti-cattolica era quindi provocata da una recrudescenza di tale ideologia post-religiosa, intendendo una interpretazione tutta politica della “rinascita religiosa” del post-comunismo, che dalla ricerca spontanea di Dio era diventata una rinascita della Chiesa di Stato. Le accuse ai missionari e alle strutture cattoliche in Russia riguardavano la versione “ecclesiastica” dell’invasione del nemico, il “proselitismo” cattolico sul territorio canonico ortodosso. Era evidente la pretestuosità di tale accusa, essendo i cattolici un’infima minoranza all’interno della popolazione russa, poche centinaia di migliaia di persone su 145 milioni, dei quali frequentavano la Chiesa una percentuale molto ridotta. Né si poteva sostenere che i cattolici avessero sottratto fedeli agli ortodossi, visto che le poche centinaia di cattolici russi non di origine polacca, lituana o tedesca per lo più erano non battezzati o persone che comunque non frequentavano le chiese del patriarcato moscovita.
Dal 1990, anno dell’apertura della nunziatura apostolica di Mosca, e dalle nomine episcopali del 1991, non si era verificato in Russia un solo vero caso di conflitto tra cattolici e ortodossi per la disputa dei fedeli o di edifici di culto, che venivano restituiti con molta difficoltà, tanto che ancora oggi molti vengono negati. Le relazioni personali tra sacerdoti e fedeli dell’una e dell’altra parte erano più che cordiali, in molti casi decisamente fraterne. L’espulsione dei missionari avvenne per un pretesto burocratico: le quattro amministrazioni apostoliche cattoliche (Mosca, Saratov, Novosibirsk e Irkutsk) vennero elevate dalla Santa Sede al rango di diocesi, una decisione quasi automatica dopo un certo intervallo di tempo, e questa (incauta) decisione fu considerata una “dichiarazione di guerra” da parte degli ortodossi e dei nazionalisti.
Per oltre dieci anni, fino all’incontro tra il papa Francesco e il patriarca Kirill nel 2016, le relazioni tra i cattolici e gli ortodossi russi rimasero congelate in un misto di diffidenza e ostilità, e i cattolici sul territorio della Russia furono costretti a limitare al massimo le proprie attività. L’accusa di proselitismo è stata progressivamente “neutralizzata”, grazie anche a una commissione presieduta dal patriarcato che imponeva ai cattolici l’obbligo di chiedere il permesso per qualunque nuova iniziativa. Rimaneva un’altra accusa, ben più incisiva e storicamente fondata nelle sue varie interpretazioni: quella dell’uniatismo in Ucraina.
La Chiesa greco-cattolica in Ucraina non ha ramificazioni dirette in Russia, se non per piccole comunità sparse qua e là sul territorio europeo e siberiano, ma “uniatismo” e “proselitismo” venivano associate in un’unica strategia di “invasione cattolica” nello spazio del patriarcato di Mosca. L’Unione di Brest era stata firmata nel 1596, come risposta dei russi ortodossi del regno di Polonia alla proclamazione del patriarcato di Mosca avvenuta sette anni prima, scegliendo di ricongiungersi alla “prima Roma” papale invece di esaltare la “terza Roma” moscovita. Da allora la contesa in queste terre ha vissuto momenti di stasi e periodi drammatici, come quando nel 1946 Stalin decise dall’alto di sopprimere la Chiesa greco-cattolica imponendo la sua fusione con il patriarcato di Mosca, nello pseudo-Sinodo di Leopoli organizzato dall’allora segretario del partito in Ucraina Nikita Khruščev, con l’avallo del “patriarca di Stalin” Alessio I a Mosca.
Gli uniati furono duramente perseguitati per tutto il periodo sovietico, e non attesero la fine dell’impero per tornare a essere protagonisti: già dal 1990 uscirono allo scoperto, riprendendosi le chiese sottratte quasi cinquant’anni prima cacciando anche con azioni di forza i preti “moscoviti”, molti dei quali del resto si dichiararono dalla parte dei greco-cattolici. La Santa Sede non poté fare altro che riconoscere i propri fedeli di rito orientale in Ucraina, che il santo papa Giovanni Paolo II difendeva dalle accuse e dalle ostilità interne anche alla stessa Chiesa cattolica. Nel 1991 il nunzio in Unione Sovietica pubblicò le nomine dei vescovi uniati in tre diocesi, divenute poi molte di più negli anni successivi, fino a coprire il territorio dell’intera Ucraina indipendente. Gli uniati sono all’incirca 3 milioni, la maggioranza dei quali vive nelle zone occidentali del Paese, ma hanno chiese e monasteri in ogni regione.
Dal patriarcato di Mosca, se col tempo è stata quasi del tutto superata la questione del “proselitismo”, non si è mai abbassata la guardia contro l’uniatismo: quando vi fu la rivolta anti-russa del Maidan nel 2014, dagli ambienti patriarcali si puntò il dito sugli uniati come i veri ispiratori delle sommosse, addirittura attribuendo loro la paternità spirituale dei gruppi più accesi dell’estrema destra ucraina, i “neo-nazisti” che sono stati indicati da Putin come i nemici del “mondo russo”, contro i quali si è resa necessaria l’“operazione speciale militare” difensiva per liberare russi e ucraini dall’influsso occidentale. Si aggiunga che molti dei sacerdoti e vescovi greco-cattolici provengono in effetti dalla diaspora ucraina nel mondo, o hanno trascorso lunghi periodi in vari Paesi come lo stesso arcivescovo maggiore Svjatoslav (Ševčuk) che conobbe papa Bergoglio in Argentina, e che gli uniati chiamano esplicitamente “il nostro patriarca”. Il suo predecessore, il cardinale Ljubomyr Husar, era rientrato in Ucraina dopo lunghi anni di esilio romano, da lui trascorso insieme a tanti compatrioti nel monastero di Grottaferrata e nella chiesa ucraina di Santa Sofia in via Boccea, la cattedrale ucraina all’estero voluta dal cardinale Iosif Slipyj, giunto a Roma dopo 18 anni di lager siberiano.
Oggi il corpo di Husar riposa nella nuova cattedrale della Risurrezione di Cristo, sulla riva sinistra del Dnipro, il fiume del Battesimo della Rus’ del 988. In questa chiesa bizantina moderna consacrata nel 2011 risiede l’arcivescovo-patriarca Svjatoslav, ospitando centinaia di persone nella cripta per difendersi dai bombardamenti moscoviti. Egli ha dichiarato “un miracolo” che la capitale sia ancora in piedi e non sia occupata dai carrarmati russi, in un drammatico collegamento video con i confratelli del Pontificio Istituto Orientale di Roma lo scorso 29 marzo. Svjatoslav ha raccontato che “l’invasione era stata ben pianificata, abbiamo trovato nostri parrocchiani, coristi e ragazzi dei gruppi giovanili con in mano le liste degli obiettivi da eliminare, in cui c’erano tutti i leader della nostra Chiesa e di quelle ortodosse”. I combattimenti più violenti sono avvenuti proprio intorno alla cattedrale greco-cattolica, da cui i russi pensavano di poter attraversare il fiume e conquistare quella storica ortodossa di santa Sofia, sulle alture della riva destra.
“Sono stati momenti apocalittici, in cui pensavamo che il mondo stesse crollando, e ci siamo dovuti organizzare come potevamo”, racconta l’arcivescovo, “la cosa più importante era rimanere in contatto con i vescovi e i sacerdoti, per potersi prendere cura della nostra gente”. I messaggi quotidiani di cinque minuti di Svjatoslav sono diventati per tutti l’unica fonte d’informazione e le direttive per le azioni da compiere, con la frase “sono io, Kiev è viva!” che egli ha raccontato tra le lacrime: “Con voi posso piangere, alla gente devo dare parole di speranza”. E così “la forza morale del popolo ucraino è diventato un miracolo che sorprende il mondo, la vita della capitale sta rinascendo, anche se è rimasto solo un milione di persone, un terzo della popolazione”.
Le cifre del martirio dell’Ucraina sono impressionanti, come ormai tutti i giornali testimoniano quotidianamente, e Svjatoslav precisa che “tutti i preti sono rimasti nelle loro parrocchie”, perfino quelli delle città-fantasma di Mariupol, Černihiv e Kharkiv, rasa al suolo dalle bombe e dai missili ceceni: “1300 razzi in un mese, sono state distrutte chiese ed edifici storici”. Due chiese al giorno vengono abbattute, sapendo che la gente si rifugia nelle cripte, e la maggioranza sono chiese del patriarcato di Mosca in Ucraina.
L’arcivescovo racconta anche di una grande solidarietà tra le Chiese, greco-cattolica, autocefala e moscovita. I rappresentanti di tutte le comunità si mantengono continuamente in contatto tra loro, soprattutto nella protezione di Santa Sofia, la cattedrale-simbolo del cristianesimo di Kiev in cui si conserva ancora un mosaico della Madonna orante che protegge il popolo, rimasto miracolosamente intatto anche durante l’invasione dei tataro-mongoli del 1240. A Kiev è rimasto eroicamente anche il nunzio apostolico, mons. Visvaldas Kulbokas, lituano, unico ambasciatore che non si è trasferito nella più sicura Leopoli, perché “sono un pastore, prima che un diplomatico”, e Svjatoslav conferma: “noi siamo pastori, non chierichetti del potere”.
L’arcivescovo ringrazia papa Francesco, che lo ha chiamato subito dopo l’inizio delle ostilità e gli fa sentire la sua vicinanza, anche con le frequenti chiamate del cardinale Parolin. Ringrazia per “l’evento straordinario della consacrazione al Cuore Immacolato di Maria, perché stiamo vivendo uno scontro apocalittico tra il bene e il male e ci serve un miracolo della Madonna, di colei che ha schiacciato la testa al drago antico, ci serve la forza soprannaturale dell’Immacolata che sentiamo in mezzo noi, cattolici, ortodossi e tanta gente comune”.
La storia dei cattolici in Russia e in Ucraina riparte dalla fede e dalla comunione nella sofferenza, ed è la vera speranza per queste terre. Il nuovo Battesimo di Kiev che rigenera l’umanità bisognosa di ritrovare la pace e l’amore tra i cristiani, tra i popoli, tra gli uomini.