Da Edificati sulla Roccia del 19/01/2019. Foto da libertàepersona.org
Premessa: in ricordo di Jan Palach (1948-1969)
Jan aveva ventun’anni quel 16 gennaio 1969, quando si lasciò bruciare ai piedi della scalinata del Museo Nazionale in Piazza San Venceslao a Praga, a simboleggiare tragicamente la fine di “quella” Primavera. Morì in ospedale tre giorni dopo, il 19 gennaio, ed ebbe anche il tempo di parlare un’ultima volta, in una struggente intervista “finale” [cfr. Link-1]. Il suo funerale ― seguito da più di mezzo milione di persone ― si trasformò in una straordinaria prova di resistenza civica al regime comunista e Jan ne diventò ovunque il simbolo.
In occasione della ricorrenza del cinquantenario del suo sacrificio, mi pare doveroso e opportuno, ricordare anche gli altri “fuochi” della libertà, che si sono immolati — a differenza del giovane cecoslovacco (allora) — nel silenzio e nella dimenticanza del mondo libero.
Il ricordo dei “dimenticati” comincia — con evidente imperfezione cronologica — da Romas Kalanta e Vytautas Vičiulis e ricalca quasi alla lettera un mio scritto del 2012, il cui contesto preminente — le sofferenze della Lituania sotto il regime comunista — è alla base di tale imperfezione.
Rispetto a questo scritto mi è parso opportuno aggiungere anche qualche altro “eroe” silenzioso, non perché così il quadro possa ritenersi del tutto esauriente, ma solo per allargarlo, comprendendo tempi diversi, altre religioni e altri popoli [cfr. Link-2].
Romas Kalanta (1953-1972), il giovane studente cattolico lituano
Romas era un giovane studente cattolico lituano. Aveva diciannove anni quando il 14 maggio 1972 decise, come Jan, di bruciare la sua giovane vita nel viale della Libertà del parco di Kaunas: si fece avvolgere dalle fiamme perché quei bagliori potessero aiutare il miope Occidente a vedere — foss’anche solo un po’ — le catene che dolorosamente serravano la sua Lituania. «”Libertà alla religione, libertà alla Lituania, fuori i russi!”» [UFL, p.263] furono le sue ultime parole.
Ma, a differenza di Jan, diventato un simbolo ovunque, Romas era invece destinato a diventare un simbolo soltanto nella sua patria, soltanto il simbolo della resistenza lituana all’oppressione sovietica. Le fiamme che lo avvolsero colpirono profondamente «la popolazione [che] restò scossa e commossa da questa tragica protesta contro la violazione dei diritti umani e la spietata politica del governo sovietico nei riguardi della nazionalità» [CCL-1, p.149]. Come quelli di Palach, anche i funerali di Romas costituirono un grave problema per i “governanti”, che ne vietarono lo svolgimento, senza riuscire però a soffocare «[…] una dimostrazione generale di popolo che chiedeva la libertà nazionale e religiosa» [ibid.]. «Per due giorni […] [il suo ultimo] grido [prima ricordato, sulla libertà della religione e della patria] venne ripetuto da migliaia di persone nelle strade lituane, finché venne soffocato dall’esercito sovietico. Il giorno seguente altre 4 persone imitarono il gesto disperato di Kalanta; poi si ristabilì ancora la “calma”» [UFL, p.263].
Quel corpo bruciato diventò per il regime comunista una specie di ossessione, il fantasma del nemico che continuamente riappariva ad agitare i suoi sonni. Un anno dopo, a Kaunas, «all’approssimarsi del tragico anniversario […] si avvertì una certa inquietudine, [con] le strade […] piene di milizia e di agenti ausiliari, [con il] parco [in cui] vigilavano continuamente gli agenti della sicurezza, [e con l’ordine imposto] […] agli studenti di non circolare il 14 maggio lungo il viale della Libertà» [CCL-1, p.255].
Poi, nel giorno dell’anniversario, quella “certa inquietudine” crebbe fino a diventare «[…] aria di stato d’assedio» [ibid., p.287]. I miliziani avevano debordato dal viale della Libertà e si erano sparsi per tutta Kaunas, «[…] ben forniti di sfollagente e di apparecchi radio rice-trasmittenti» [ibid., p.288] e sostenuti — per il mantenimento dell’ordine — «[…] anche [da]i funzionari di vari uffici e [da]gli insegnanti delle scuole» [Ibidem]. Alla folla convenuta non fu permesso di raggrupparsi e «[…] tutte le persone che avevano osato deporre fiori sulla tomba di R. Kalanta o nel luogo del suo sacrificio vennero arrestate» [Ibidem]. Comunque, malgrado i tanti ostacoli — anche semplicemente “burocratici” e “scolastici” (lezioni dalle 8 di mattina alle 10 di sera; divieti agli studenti di fare acquisti e di recarsi in viale della Libertà) — «la gioventù di Kaunas si radunò nel corso centrale per una breve commemorazione dell’anniversario […] senza [che accadessero] seri incidenti» [Ibidem].
Il fantasma si insinuava ovunque. Il 27 marzo 1973, fu condotta una grande operazione di polizia contro studiosi di etnologia. Ne furono fermati oltre 100, a Vilnius, Kaunas e Riga, per interrogarli — fra l’altro — «[…] sugli umori della gioventù, sulla raccolta della documentazione relativa al periodo della guerriglia condotta dai “Fratelli della foresta” [i “partigiani” lituani, che per molti anni dopo il 1944 sostennero la guerriglia contro l’invasore sovietico, ndr], sulla divulgazione di manifesti, — ed ecco il fantasma materializzarsi — sull’organizzazione della commemorazione dell’anniversario di Kalanta» [ibid., p. 427].
Durante la perquisizione della casa di Janina Lumbiené, di Kaunas, il fantasma si intrufolò — per fungere da capo d’accusa — in un quaderno con qualche poesia che gli era stata dedicata [cfr. ibid., p. 384].
Altrove entrò da elemento definitivamente probatorio, come nel caso dello studente cattolico Zenonas Mištautas, che — essendosi rifiutato «[…] di tenere una conferenza ateistica agli operai [— era stato] privato della borsa di studio in quanto non adempiva agli “obblighi sociali“» [ibid., p.440] e sanzionato con un tre in condotta che procrastinava di un anno il conseguimento del suo diploma. Zenonas si rivolse prima al Direttore e poi al Ministro per l’istruzione superiore, che però lasciò in vigore la deliberazione punitiva assunta perché «[…] Z. Mištautas era un credente, che tempo prima aveva portato una croce sul monte di Meškuičiai in onore di Kalanta» [Ibidem].
Un’altra volta il fantasma si insinuò nella ingenua domanda di un alunno della scuola media di Akmené. La sua classe, nell’estate del 1973, era in gita a Kaunas, quando, attraversando il parco, quell’alunno chiese dove fosse il posto preciso in cui Romas si era bruciato vivo. «Immediatamente al gruppo degli studenti si avvicinò un agente della sicurezza il quale chiese cosa cercassero. “Il posto dove è morto Kalanta” spiegò lo studente» [ibid., p. 447]. L’agente annotò il nome dell’insegnante, che qualche giorno dopo fu inesorabilmente costretta a dimettersi. La motivazione ridicola con cui fu licenziata — «si era recata nella toilette esistente nel giardino dove si diede fuoco Romas Kalanta» [CCL-2, p.288] — è riportata nel bellissimo discorso di autodifesa di Nijolé Sadunaité, a sua volta arrestata e processata per «agitazione antisovietica e propaganda» perché trovata in possesso di una macchina da scrivere e di alcuni numeri della Cronaca della Chiesa Cattolica in Lituania [cfr. ibid., p.62].
Il fantasma accompagnò il 13 maggio 1973 anche la gita di nove studenti dell’Università di Vilnius, durante la quale avevano previsto di visitare — tra l’altro — anche il monumento al sovrano lituano Vytautas il Grande (1352-1430), eretto a Perloja. Vi deposero dei fiori, senza canti o discorsi. «Li aveva però seguiti un agente della Sicurezza che per telefono ne chiamò altri e la milizia» [ibid., p.282]. Furono fermati e interrogati. Tre di essi furono severamente puniti. Anzitutto furono espulsi dal Komsomol «[…] per “violazione della disciplina comunista” e uno di loro […] anche per “instabilità ideologica” (durante la perquisizione gli era stato trovato un libro di preghiere)» [Ibidem]. Infine, furono espulsi dall’Università, «[…] per “rozza violazione della disciplina” […] [con l’accusa] di aver portato i fiori al monumento di Vytautas senza alcun motivo, […] ciò [che] costituiva, secondo la direzione dell’Università, una commemorazione mascherata [— ecco il fantasma che ritorna! —] dell’anniversario di Kalanta» [Ibidem].
Nell’estate del 2014, con mia moglie, andammo a trovare il “monumento” che la città di Kaunas gli aveva dedicato. Non lo trovammo particolarmente bello ― una lastra di marmo a pavimento e un muretto di recinzione di una aiuola. Il nostro Requiem, perciò, fu ancora più intenso.
Vytautas Vičiulis (1951-1989), un altro lituano dimenticato,
Il silenzio che ha avvolto Romas Kalanta fuori dalla sua Lituania è lo stesso che ha condannato alla dimenticanza — nel suo caso quasi totale — anche il suo connazionale Vytautas Vičiulis, un pittore e restauratore di Klaipéda, che, a 38 anni, il 3 marzo 1989 — ahimè, solo qualche mese prima di quel fatale 9 novembre in cui il Muro cessò di dividere l’Est dall’Ovest —, si arse vivo nella sua città, avvolto nella bandiera nazionale e vicino al monumento di Lenin, per protestare contro i sovietici che occupavano ancora la sua patria. Morì il giorno dopo in ospedale, per le gravissime ustioni. Recitammo un Requiem anche sui fiori secchi del suo “monumento”, modestissimo e quasi abbandonato.
Gli altri “fuochi” della libertà
Se in quel mio vecchio scritto del 2012, mi sembrò un dovere e un atto di gratitudine tentare di far riemergere dalle nebbie della dimenticanza — anche se in modo molto sommario, soprattutto perché trattati nel diverso contesto di cui ho fatto cenno — altri tragici “fuochi” per la libertà, altrettanto doveroso mi è sembrato in questa revisione aggiungere, come anticipato in premessa, altri straordinari combattenti contro il comunismo, sebbene in quel loro modo assolutamente sui generis, “fuochi umani” che, ancor meno di Romas e di Jan, ebbero “fama” e assursero a simboli nel “libero” Occidente.
Ryszard Siwiec (1909-1968), il polacco padre di cinque figli
A cominciare da Ryszard Siwiec, il contabile polacco padre di 5 figli che, a 59 anni, l’8 settembre 1968 (quattro mesi prima di Jan Palach!) si bruciò a Varsavia per protestare contro l’invasione sovietica della Cecoslovacchia, con un gesto tragico ma studiato perché potesse avere la massima visibilità. Lo compì, infatti, nel giorno della Festa nazionale del Raccolto, nel grande spettacolo propagandistico previsto allo Stadio Dziesieciolecia, di fronte a 100.000 spettatori, alla nomenklatura e ai diplomatici stranieri, dopo aver lasciato scritti e registrati i motivi più profondi che ne erano alla base: la sua repulsione per il Patto di Varsavia e per l’invasione comunista della Polonia. Finì la sua vita, nell’ospedale in cui era stato ricoverato, quattro giorni dopo, il 12 settembre. Ovviamente — secondo collaudata e classica prassi sovietica — fu liquidato dal regime come un “malato mentale”. La sua tomba è a Przemyśl, nel cimitero di Zasański. La memoria di Siwiec si è riaccesa per un po’ nel 1999 con il film documentario Ascolta il mio grido che ha vinto l’European Film Awards, il premio come miglior documentario dell’anno. Ha ricevuto onori postumi da Vaclev Havel (1936-2011), presidente della Repubblica ceca nel 2001 e da Ivan Gašparovič, presidente della Slovacchia, nel 2006. Nel 2003 anche la sua Polonia provò a rendergli onore, ma attraverso un Presidente “sbagliato”, Aleksander Kwasniewski, con un passato comunista così rilevante che la famiglia Siwiec ritenne non dimenticabile, rifiutando perciò di accettare il premio.
Vasyl Makuch (1931-1968), l’ucraino che a quindici anni fu condannato ai lavori forzati
Il 21 agosto 1968 i carri armati dell’URSS e dei regimi rossi del patto di Varsavia (esclusi quelli rumeni) entrarono a Praga, decretando la fine della sua “Primavera” per ripristinare il terribile gelo dell’”Inverno” comunista. Quel giorno e quei carri armati furono per Vasyl Makuch un colpo al cuore, forse la fine dei sogni di libertà che aveva sempre coraggiosamente coltivato. Aveva combattuto per la sua patria contro i sovietici fin da ragazzo, tanto che a soli quindici anni, nel 1946, fu arrestato dall’NKVD, la terribile polizia politica dell’invasore, e poi processato e condannato a dieci anni di lavori forzati.
Ne scontò “solo” nove nei campi siberiani, prima di essere mandato ― nel 1955 e sempre in Siberia ― in esilio. In questo periodo conobbe l’attrice Lidija Ivanivna Zapara che qualche anno dopo avrebbe sposato a Dnipropetrovsk, la grande città ubicata verso il centro dell’Ucraina in cui aveva deciso di abitare, dopo che gli era stata proibita la residenza nella parte occidentale della sua patria. Qui lavorò come riparatore di elettrodomestici, mentre la moglie trovò occupazione come cuoca. Cercò di studiare, fino ad essere ammesso alla facoltà di Pedagogia. Ma non ebbe fortuna: finì espulso perché non aveva raccontato ai commissari del “suo” passato.
Quando gli arrivò la notizia dei carri armati a Praga, Vasyl confessò alla sua Lidija che era pronto a dare la vita per la libertà della sua patria e dei suoi figli. E il 5 novembre 1968 ― l’Inverno comunista era già ritornato da tre mesi, ben prima dell’incombente inverno meteorologico ― in un lungo viale di Kiev tenne fede alla sua parola: si cosparse di benzina e si diede fuoco, gridando «Abbasso i colonizzatori comunisti! Viva l’Ucraina libera! Gloria all’Ucraina!» e «Abbasso gli invasori della Cecoslovacchia!». Morì il giorno dopo in ospedale.
Ma come si sa, nel comunismo le famiglie debbono pagare le “colpe” di qualsiasi componente, quindi la moglie deve pagare le “colpe” del marito. Lidija, informata delle gravi condizioni di Vasyl, accompagnata dal padrino, giunse a Kiev il giorno della sua morte. Furono subito entrambi arrestati. Chi partecipò al funerale, svoltosi a Dnipropetrovsk sotto lo stretto controllo del KGB ― la “nuova” polizia politica sovietica prima chiamata NKVD ―, fu fotografato e schedato. Lidija fu interrogata per tre mesi, perse il lavoro da cuoca e per tanti anni fu costretta a rimanere disoccupata, con gravi problemi economici per mantenere dignitosamente i due figli.
Sándor Bauer (1952-1969), a Budapest… aveva ancora sedici anni
Il 20 gennaio 1969, il giorno in cui decise di dare la sua vita per la libertà, Sándor Bauer aveva ancora sedici anni (ne avrebbe compiuto diciassette un mese dopo). Aveva certamente saputo della dolorosa fine della “Primavera” di Praga ma soprattutto aveva saputo del tragico gesto compiuto in quella città da Jan Palach una settimana prima. E forse il suo papà gli aveva anche raccontato di quel 4 novembre 1956, quando lui aveva solo quattro anni e i carri armati sovietici erano entrati a Budapest, la sua città, e avevano raso al suolo la casa di famiglia; quando sotto i cingoli era rimasta schiacciata la libertà del popolo ungherese, quella libertà che lui non aveva mai potuto assaporare: avrebbe voluto specializzarsi in Scienze forestali ma per ragioni politiche gli fu impedito e dovette fare il meccanico di automobili.
Sandor si immolò col fuoco contro il comunismo, scegliendo per questo suo gesto estremo un luogo evidentemente ungherese: l’ingresso del Museo Nazionale di Budapest, vicino alla targa in memoria di Sándor Petöfi, il poeta “nazionale” per eccellenza. Impugnando due bandiere, si mise a correre sulla grande scalinata, con le otto imponenti colonne che fecero da sfondo alle fiamme che lo avvolgevano. I presenti tentarono di aiutarlo ma, secondo un testimone, lui non volle e motivò il suo sacrificio. Fu ricoverato in ospedale e due giorni dopo, nell’interrogatorio della polizia politica, confermò il “motivo” alla base del suo gesto: un atto di protesta contro l’occupazione sovietica. Fu subito dichiarato in arresto ma non riuscirono a incarcerarlo, perché il giorno dopo, il 23 gennaio, morì. I suoi funerali furono celebrati più di un mese dopo, il 28 febbraio, e si svolsero segretamente, così come imposto ai suoi genitori dalla polizia.
Josef Hlavatý (1943-1969), il cecoslovacco che si bruciò lo stesso giorno dell’ungherese Sándor
Nello stesso giorno di Sándor Bauer, il 20 gennaio 1969, si dette fuoco l’operaio Josef Hlavatý. Cambiavano nazione, città e combustibile utilizzato ― dall’Ungheria alla (allora) Cecoslovacchia, da Budapest a Plzeň, dalla benzina al cherosene ― ma non cambiava il motivo dell’estremo sacrificio: come Sandor, Josef intese immolare la sua giovane vita per protestare contro l’invasione sovietica della sua patria e come Sándor scelse per farlo un luogo evidentemente simbolico: il punto della piazza dove prima sorgeva il Monumento alla Liberazione Nazionale, con la statua di Tomáš Garrigue Masaryk (1850-1937), fondatore e primo Presidente della Cecoslovacchia, al quale oggi è dedicata la piazza stessa.
Josef morì in ospedale il 25 gennaio, cinque giorni dopo la sua atroce azione di denuncia. Nelle notizie del suo gesto e della sua morte diffuse da radio e tv di regime. fu descritto come un alcolista che aveva pesanti problemi familiari ― ed era vero ― ma nascondendo la sua attività negli ultimi tempi decisamente anti URSS, lui che da giovane ne era un simpatizzante.
Jan Zajíc (1950-1969), il giovane amico di Jan Palach
Il ricordo di Romas fu l’occasione per vincere anche un’altra dimenticanza, sebbene un po’ minore: quella che è toccata a Jan Zajíc, un amico di Jan Palach, che a 19 anni, il 25 febbraio 1969, un mese dopo, nella stessa piazza, si lasciò ardere come lui, nel giorno del 21 anniversario del colpo di stato comunista. Era arrivato a Praga con tre amici, portando con sé lettere e volantini per mettere in guardia i suoi connazionali verso quella “normalizzazione” figlia dei carri armati sovietici e per incitarli alla lotta contro l’invasore. Dopo aver affidato agli amici il materiale di propaganda, entrò nel portone al n.39 di piazza San Venceslao, si cosparse di liquido infiammabile e si diede fuoco. Lasciò questo scritto per la sua famiglia: «Mamma, papà, fratello e sorellina! Quando leggerete questa lettera sarò già morto o molto vicino alla morte. So quale profonda ferita provocherò in voi con questo mio gesto, ma non preoccupatevi per me. […] Non lo faccio perché sono stanco della vita, ma proprio perché la apprezzo. E la mia azione ne è forse la migliore garanzia. Conosco il valore della vita e so che è ciò che abbiamo di più caro. Ma io desidero molto per voi e per tutti, perciò devo pagare molto. […] Non lasciate che mi considerino un pazzo. Salutate i ragazzi, il fiume e la foresta». Il ricordo del grande funerale praghese di Jan Palach preoccupò talmente tanto la polizia di stato da vietarne uno analogo per il povero Zajíc, che fu inumato nella sua città natale di Vítkov.
Evžen Plocek (1929-1969), il comunista cecoslovacco che non sopportò la fine della “primavera”
Il ricordo di Romas mi permise di riportare sulla superficie della storia degna di memoria anche la figura dell’operaio Evžen Plocek, di Jihlava, la città della Repubblica Ceca capitale della regione di Vysočina. A 26 anni, nel 1955, Evžen era già nel Partito comunista, diventando poi anche presidente del Movimento sindacale rivoluzionario. Nel 1968, quando ad agosto i carri armati del Patto di Varsavia invadevano Praga, era cresciuto anche professionalmente, fino a diventare vicedirettore dell’opificio meccanico in cui lavorava. Gli piaceva il tepore di quella “Primavera” metaforica e perciò la delusione per il ritorno del gelo sovietico fu per lui terribile. E il 4 aprile 1969, Venerdì santo, due mesi dopo Jan Palach e un mese dopo Jan Zajíc, andò nella piazza della sua città e come loro si dette fuoco. Malgrado l’ostilità del regime, i suoi colleghi operai vollero celebrare un funerale pubblico dove Evžen aveva deciso di finire la sua vita.
Ilja Aronovič Rips, l’ebreo lettone che non riuscì a morire
Anche il lettone Ilja Aronovič Rips ― un brillantissimo studente di matematica di vent’anni ― rimase molto colpito dalla morte che a Praga, il 16 gennaio 1969, si era data Jan Palach. E poco meno di tre mesi dopo, il 13 aprile, decise di emulare il suo gesto, scegliendo anche lui, per compierlo, un posto evidentemente simbolico: il Monumento alla libertà in Piazza della Libertà, al centro di Riga.
Allargò per terra lo striscione su cui aveva scritto in russo «Protesto contro l’occupazione della Cecoslovacchia», si cosparse di benzina e si diede fuoco. I presenti, però, spensero le fiamme così rapidamente che non solo riuscirono a salvarlo, ma anche a limitare i danni sul suo corpo, al punto che gli vennero riscontrate solo ustioni di piccola entità alle braccia e al collo.
Tra i presenti, però, c’era anche un agente del KGB. Dopo averlo interrogato, lo misero in isolamento in una clinica psichiatrica e il giorno dopo formalizzarono il suo arresto per «attività antisovietica», lo tradussero nelle carceri di Riga e lo espulsero dall’Università. Qualche mese dopo, ad ottobre, fu dichiarato schizofrenico e ricoverato ― con metodo classico dell’URSS comunista ― nella clinica psichiatrica di Riga.
Di lui si interessò Vladimir Bukovski che portò il suo caso all’attenzione dei partecipanti al Congresso internazionale di matematica. Le pressioni internazionali permisero a Ilja Rips di riacquistare la libertà nella primavera del 1971, quando fu dimesso dalla cinica psichiatrica.
Dal 1972 vive in Israele, dove prese il nome di Elijahu e riuscì a concludere i suoi studi e dove oggi svolge l’attività di docente
Oskar Brüsewitz (1929-1976), il pastore evangelico lituano tedesco
Erano passati ormai più di sette anni dal sacrificio di Jan Palach, ma dentro la Cortina di ferro i regimi comunisti erano più opprimenti che mai, come dimostra la “storia” del pastore evangelico Oskar Brüsewitz.
Oskar era nato in Lituania e si era trasferito in Germania, prima in quella occidentale ― dove imparò il mestiere di calzolaio ed aprì una piccola fabbrica di calzature per bambini ―, poi, nel 1954, in quella dell’Est, dove frequentò il seminario di Erfurt completando gli studi nel 1969; infine ― dall’anno successivo e fino alla sua morte nell’agosto 1976 ―diventò pastore nella cittadina sassone di Zeitz
Combatté a viso aperto contro l’ateizzazione forzata della società, coinvolgendo molti giovani e accusando i vertici della Chiesa di essersi opposti in modo inadeguato alla politica materialista e anticlericale del Partito comunista. Tutto questo suscitò non solo il fastidio della Chiesa ma, ben di più, attivò il micidiale “interesse” della Stasi, la famigerata polizia politica della Germania Est. Che, peraltro, lo controllava da molto tempo, quanto meno da quando ― allo slogan propagandistico del Partito comunista «Anche senza Dio e senza il sole porteremo a casa il nostro raccolto» ― aveva opposto il suo «Senza pioggia e senza Dio mandate in bancarotta il mondo intero», portando il suo scritto in giro con il calesse perché tutti potessero vederlo.
Un anno dopo questa “esposizione” decise di auto-immolarsi. Lo fece cercando di rendere ancora una volta il più possibile pubblico il suo gesto. Era il 18 agosto 1976 e quel giorno ― per esporre il suo “messaggio” di denuncia contro il regime e mostrarlo a più gente possibile ― non utilizzò di nuovo il calesse bensì ricorse alla sua auto, sulla quale, davanti a una chiesa, stese lo striscione che aveva preparato con questa scritta: «Radiogramma a tutti, radiogramma a tutti, la chiesa della Repubblica Democratica Tedesca denuncia l’oppressione di bambini e giovani nelle scuole da parte del regime comunista». Poi ― con questa “quinta” a fare da sfondo e forse con ancora nelle orecchie, a far da colonna sonora, la sua composizione preferita, che, prima di uscire da casa, si era fatto suonare dalla figlia al pianoforte ― si cosparse di benzina e si diede fuoco. Morì quattro giorni dopo, senza che la Stasi avesse permesso alla moglie di vederlo per l’ultima volta.
Musa Mamut, il tataro di Crimea (1931-1978)
La vita del tataro Musa Manut è esemplare per descrivere quanto un regime come quello sovietico abbia potuto far soffrire i suoi “sudditi”-
Musa era nato nel 1931 in Crimea, in una famiglia numerosa, con cinque fratelli e due sorelle, che fu deportata in Uzbekistan, dove lui lavorò come operaio e come guidatore di trattore e dove, soprattutto, perse quattro fratelli, morti per nutrizione insufficiente.
Nel 1975 tornò in Crimea, dove acquistò una casa, ma senza poter concludere l’operazione, per banali ma insormontabili ostacoli burocratici (il relativo certificato notarile che comprovasse il suo acquisto!); perciò gli fu revocato il permesso di residenza, fu arrestato e poi condannato a due anni per clandestinità, come sua moglie, che però ebbe il beneficio della libertà condizionata. Poté riabbracciare la famiglia nel luglio 1977, nove mesi prima del termine previsto. Ma la generosità della Corte nei suoi confronti finì molto presto, perché, ancora una volta, negò a Musa il diritto di residenza, anzi, in più, gli impose di lasciare di nuovo la sua patria. E meno di un anno dopo, il 20 giugno 1978, si aprì contro i coniugi Mamut un secondo procedimento penale per clandestinità. E tre giorni dopo la polizia si presentò nella loro casa… Musa uscì, si buttò addosso la benzina e si diede fuoco.
Morì cinque giorni dopo all’ospedale di Simferopol, la capitale della Crimea. Per tutto il tempo della degenza rimase cosciente, ripetendo molte volte che aveva compiuto il suo gesto estremo per protestare contro la deportazione dei Tartari di Crimea. Il che, come sempre, “obbligò” le autorità comuniste a dichiararlo un malato mentale…
Guido Verna