In quel tempo, Gesù si recò in una città chiamata Nain, e con lui camminavano i suoi discepoli e una grande folla.
Quando fu vicino alla porta della città, ecco, veniva portato alla tomba un morto, unico figlio di una madre rimasta vedova; e molta gente della città era con lei.
Vedendola, il Signore fu preso da grande compassione per lei e le disse: «Non piangere!». Si avvicinò e toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: «Ragazzo, dico a te, alzati!». Il morto si mise seduto e cominciò a parlare. Ed egli lo restituì a sua madre.
Tutti furono presi da timore e glorificavano Dio, dicendo: «Un grande profeta è sorto tra noi», e: «Dio ha visitato il suo popolo». Questa fama di lui si diffuse per tutta quanta la Giudea e in tutta la regione circostante. (Lc 7,11-17)
Le sofferenze e la disgrazia di un altro risvegliano un sentimento di compassione. I bambini sono molto emotivi, piangono per un nonnulla. Che valore ha questo sentimento? Secondo la tradizione spirituale orientale è un sentimento importante, il segno naturale dell’unione fra gli uomini e della loro vocazione: vivificare il mondo. Come ogni sentimento, anche la compassione può divenire sterile quando non si trasforma in atti di carità consapevole. La compassione sterile indebolisce il carattere. In Gesù ciò non accade mai. Lui ha le buone armi per abbattere tutti i mali, per cui può attuare una grande vicinanza e condivisione con i sofferenti. Perciò è importante che la compassione diventi reale, anche si trattasse solo di un piccolo atto simbolico di carità. Quando non possiamo aiutare in nessun modo e neanche consolare con le parole, diciamo almeno una breve preghiera per chiedere su chi piange l’aiuto di Dio.