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Il mito di Ifigenia e il significato del sacrificio

25 Ottobre 2025 - Autore: Lucia Menichelli

La storia di Ifigenia, sacrificata da Agamennone per placare l’ira della dea Artemide, è stata interpretata nel tempo come simbolo del conflitto tra affetti e dovere, o della crudeltà della guerra. Euripide ha il coraggio di mostrare l’improponibilità di una religione che lascia soli gli uomini a piangere sul proprio dolore: un dolore incomprensibile; un dolore che invoca una pietà che può rivolgere all’uomo solo un Dio che non esita a sacrificare il proprio Figlio per amore delle sue creature.

di Lucia Menichelli

La figura di Ifigenia è legata a uno degli episodi più cupi della mitologia greca: il sacrificio della figlia primogenita di Agamennone e Clitemnestra, sovrani di Micene, voluto dalla dea Artemide.

L’ira di Artemide era stata suscitata dall’offesa recatale da Agamennone tempo prima quando, avendo colpito con una freccia una cerva da molto lontano, aveva esclamato che neppure Artemide sarebbe riuscita in una simile impresa. Nel momento in cui la flotta greca deve salpare per Troia, la dea si vendica impedendo la partenza dell’esercito acheo con forti venti contrari. Perché la flotta prenda il largo, Agamennone dovrà acconsentire al sacrificio di Ifigenia.

Sono molte le versioni di questo mito, rievocato anche in età moderna, così come sono molte le interpretazioni che ne sono state date.

Tra le interpretazioni del mito (inteso di volta in volta come allegoria del conflitto tra gli affetti familiari e le ragioni di stato, come esempio degli effetti crudeli delle superstizioni, come condanna della spietatezza delle guerre, che colpiscono anzitutto i più giovani) si distingue la lettura di Søren  Kierkegaard (1813-1855) che in Timore e tremore confronta il sacrificio di Agamennone, eroe tragico, a quello di Abramo, eroe della fede. Se l’azione del primo può e deve essere giudicata nell’ambito dell’etica, quella del secondo riguarda la relazione personale di Abramo con Dio: è la risposta di fede a una parola ascoltata. Come dice san Paolo nella lettera ai Romani: «Abramo ebbe fede, sperando contro ogni speranza» (Rm 4,18).

Le varianti della storia che riguarda la figura di Ifigenia riguardano principalmente le modalità del sacrificio e, in particolare, il grado di consenso della fanciulla. Se infatti Eschilo (525-524 a.C.- 458 a.C.), e poi più tardi Lucrezio (98/94 a.C- 55? a.C.), evidenziano la crudeltà del rito attraverso la violenza esercitata sulla vittima, colta di sorpresa e recalcitrante, Euripide (480 circa – 406 circa a.C.), nella seconda delle tragedie dedicate all’eroina, Ifigenia in Aulide, introduce una significativa novità: la volontarietà dell’offerta sacrificale per la vittoria in guerra della patria. In questo dramma la decisione consapevole di Ifigenia interviene a sciogliere l’impasse che a un certo punto della vicenda blocca tutti gli altri personaggi: Agamennone (il padre), Menelao (lo zio), Clitemnestra (la madre) e Achille (cui la ragazza era stata falsamente promessa sposa, solo perché fosse condotta in Aulide) non vogliono più che sia immolata, ma non riescono a sottrarsi all’aspettativa pretesa dall’esercito ormai impaziente di partire per la guerra. La decisione della ragazza giunge imprevedibile, ma, a dispetto di quanti (nel passato, perfino Aristotele!) la considerano incoerente rispetto all’iniziale disperazione, è del tutto in linea con il proprio statuto di vergine nobile che, al pari dei giovani guerrieri, considera onorevole immolarsi per la patria con una “bella morte”. Ella decide, dunque, di donare la sua vita.

Ma il finale della tragedia riserva un’altra sorpresa: la dea Artemide, secondo quanto racconterà un messaggero a Clitemnestra, sottrae Ifigenia al colpo del sacerdote, la ragazza scompare e viene sostituita da una cerva; “tua figlia è volata verso gli dèi” le dice. Un happy end? Parrebbe di sì, seppure esso continui a suscitare perplessità interpretative (c’è chi addirittura considera gli ultimi cinquanta versi come una rielaborazione tardiva), questa volta in relazione a una certa incoerenza della dea, prima inflessibile nel reclamare il sacrificio. Eppure si può spiegare la decisione di Artemide, considerando le parole di Calcante, l’indovino presente al sacrificio: “Essa (la cerva) piace alla dea ben più della ragazza: Artemide non vuole che il proprio altare sia macchiato dal sangue di una nobile creatura”. La dea non sopporta questa scena, perché come tutti gli dèi olimpici non sopporta ciò che è brutto e deturpato, come in questo caso sarebbe accaduto al corpo di Ifigenia sull’altare. Quella della dea Artemide è la falsa pietà di chi non può apprezzare la nobiltà “virile” di un sacrificio, perché troppo distante dagli uomini e incapace a provare misericordia per loro. Euripide ha il coraggio di mostrare l’improponibilità di una religione che lascia soli gli uomini a piangere sul proprio dolore: un dolore incomprensibile perché non riconducibile alla cognizione di colpa e responsabilità, sconosciuta ai Greci; un dolore che invoca una pietà che può rivolgere all’uomo solo un Dio che non esita a sacrificare il proprio Figlio per amore delle sue creature.

Sabato, 25 ottobre 2025

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