di Cristina Cappellini
«Nour» in arabo significa «luce». Nour è anche quella luce che, sotto forma di bambina, ha permesso a un padre rimasto vedovo troppo presto di continuare a vivere. Per lei l’uomo ha vissuto, per quella figlia che ha dovuto crescere da solo e a cui ha dedicato tutta la vita. Ecco perché quando Nour, ormai ventenne, decide improvvisamente di partire per l’Iraq e di aderire allo jihad, abbandonando tutto e tutti, sembra crollargli il mondo addosso. Un mondo troppo pesante e complesso per un uomo che comincia a sentire l’incalzare degli anni e che vive intensamente il doloroso senso dell’abbandono. In nome di cosa poi?
É questo l’interrogativo di fondo che pone lo spettacolo teatrale Lettere a Nour, in scena al Teatro Santa Chiara di Brescia lo scorso mese di aprile, e da tempo in tournée in diverse città italiane per la regia di Giorgio Sangati, e in Francia, nella versione originale tratta dal libro Lettres à Nour di Rachid Benzine.
La storia verte sul drammatico scambio di epistole fra Nour e il padre, un insegnante universitario rimasto solo con i propri libri e per di più accusato di apostasia dalla comunità islamica che gli gravita attorno per essersi rifiutato di sposare l’interpretazione fondamentalista del Corano e quell’estremismo che da Parigi, con la strage di Charlie Hebdo, al Medioriente semina morte e distruzione.
Mano a mano che i mesi passano la corrispondenza tra i due diventa sempre più struggente, in un confronto serrato tra chi pretende di dare libertà, giustizia e uguaglianza al mondo musulmano, attraverso la costruzione dello “Stato islamico”, e chi con la forza della ragione, della saggezza dell’età, e soprattutto del grande amore per la vita, vorrebbe aprire gli occhi alla giovane, illusa dalla propaganda jihadista e dall’infatuazione per un guerrigliero di Daesh, conosciuto in Internet e sposato una volta arrivata a Falluja. Due anni di corrispondenza che, nonostante il profondo amore che lega padre e figlia, diventano scontro famigliare, generazionale, religioso. E soprattutto conflitto tra riflessione, che spesso rischia di diventare astrazione, e azione, che altrettanto spesso tramuta un’idealistica voglia di cambiare il mondo in radicalismo e violenza.
A questo proposito Lettere a Nour ricorda molto un altro bellissimo spettacolo, andato in scena qualche mese fa al Piccolo Teatro di Milano, Avevo un bel pallone rosso, sul rapporto sofferto tra Mara Cagol (la brigatista rossa, moglie di Renato Curcio) e suo padre, che fino alla fine cerca disperatamente, con tutto l’amore che prova per lei, di sottrarla a quell’abbraccio mortale. Come Mara anche Nour diventa un enigma per il padre, che non si capacita della sua scelta di vita, così radicale e così lontana dall’educazione ricevuta.
Al racconto di Nour fa da sfondo la domanda che ha portato Rachid Benzine, a scrivere il testo da cui è stata tratta la pièce teatrale: «Perché giovani uomini e giovani donne, nati nel mio stesso Paese, dalla mia stessa cultura, decidono di partire per un Paese in guerra e di uccidere in nome di un Dio che è anche il mio?». Se lo chiede l’autore, come fosse un chiodo fisso, ma è una domanda che ci facciamo anche noi quando assistiamo al fenomeno dei foreign fighters. E un’altra domanda si impone alle coscienze di tutti: che responsabilità hanno in tutto ciò la secolarizzazione dell’Occidente e allo stesso tempo l’occidentalizzazione del mondo islamico? Perché in nome di Allah molti giovani arrivano a compiere le barbarie peggiori? O forse lo fanno in nome della collera? «L’odio è la collera dei vigliacchi», ripete il padre di Nour, ricordando alla figlia che è sempre e solo l’amore a salvare l’uomo. E che nulla di glorioso e di giusto può esserci in chi, in nome di un nuovo ordine politico e sociale, insegue la morte, trucidando persino donne e bambini (significativo il passaggio, in una delle lettere del padre, sulla persecuzione dei cristiani e degli yazidi da parte di Daesh).
Ecco che lo scontro vero diviene allora quello tra vita e morte e con il prodigioso potere della vita si chiude il sipario su uno spettacolo che in fondo coinvolge tutti: musulmani e cristiani, credenti o non credenti.
Qualche nota più “tecnica”: il dramma è coinvolgente dal
primo minuto all’ultimo, grazie a una regia che non fa una piega e alle
brillanti interpretazioni. Se però Franco Branciaroli è da sempre una grande
certezza, la vera sorpresa è la giovanissima e magnetica Marina Occhionero, che
convince e dà il meglio di sé vestendo i panni di un personaggio più che
credibile. Bello il testo e appropriate le musiche. Quanto all’allestimento, si
tratta dell’ennesima dimostrazione che se uno spettacolo è ben fatto, sono
sufficienti una poltrona, un pugno di libri e un buon gioco di luci.
Insomma, uno spettacolo da vedere: per riflettere sulla complessità del nostro
tempo e sui “mostri” (per dirla con il padre di Nour) che l’estremismo e il
fanatismo generano e si portano dietro.
Sabato, 04 maggio 2019