di Cristina Cappellini
Qualche giorno fa, mi ha colpito un’immagine pubblicata su Twitter da don Salvatore Lazzara, un brillante sacerdote di origini siciliane molto attivo in cause importanti, dai cristiani perseguitati nel mondo alla difesa della vita, della famiglia, e molto altro ancora. L’immagine bella e potente twittata da don Lazzara riguardava i fuochi del Sacro Cuore di Gesù, un’usanza ancora molto sentita nel Tirolo storico.
Gli “Herz-Jesu-Feuer” sono grandi falò che ogni anno, dal 3 giugno 1796, vengono accesi sulle montagne e sulle colline di tutto il Tirolo per rinnovare un voto fatto dagli abitanti di quelle terre a fronte dell’avanzata delle truppe napoleoniche che avevano già conquistato la Lombardia e che muovevano verso nord. Su suggerimento dell’abate di Stams, Sebastian Stöckl (1752-1819), la Dieta Tirolese, riunita a Bolzano dal 30 maggio al 3 giugno 1796, decise di affidare il territorio al Sacro Cuore di Gesù, invitando il popolo a difendere la fede dall’aggressione laicista e anticlericale della Rivoluzione Francese (1789-1799).
Più tardi, nel 1809, all’ora della seconda invasione francese, Andreas Hofer (1767-1810), paladino della libertà tirolese, riuscì imprevedibilmente a sconfiggere le truppe franco-bavaresi nella battaglia di Berg-Isel, vicino a Innsbruck, in Austria, respingendo eroicamente gli invasori. La vittoria, che parve miracolosa, portò a rinnovare il voto fatto tempo prima, che venne quindi mantenuto ogni anno (fatta eccezione per il ventennio fascista, in cui i fuochi furono vietati) nel mese di giugno, solitamente nella prima domenica dopo il Corpus Domini (quest’anno sarà quindi il 29 giugno).
Nella sera di preghiera e di festa, le cime dei monti si vestono di fuochi a forma di croce o di cuore, spesso con la scritta INRI oppure IHS. Il rito viene di solito accompagnato da una Messa solenne con processione, dagli spari dei mortaretti, dalle bande musicali e dalla sfilata degli Schützen. La tradizione prevede, inoltre, che vengano accese delle luci sui balconi delle case e che alle finestre vengano esposte immagini sacre illuminate nel buio.
Di fronte a questi appuntamenti con il sacro una riflessione sorge spontanea: in una società laica come la nostra, che valore rivestono i riti di devozione popolare, di cui i falò del Sacro Cuore rappresentano solo un piccolo, seppure importante, esempio?
Di fatto sono tantissime le manifestazioni che nutrono ancora oggi la spiritualità cristiana in Italia e in Europa (ma anche in altri continenti in cui la fede è viva) e che sopravvivono all’offensiva antireligiosa nella storia. Oggi un nuovo assalto sta colpendo vari gangli della società occidentale, la quale però, per quanto smarrita, divisa e fragile, possiede ancora anticorpi che lasciano sperare.
L’Italia, da questo punto di vista, è ancora un faro e un esempio di cui andare fieri. Da nord a sud (soprattutto al Sud) il senso del sacro è ancora forte e sembra reggere l’urto delle tempeste mediatiche dettate dal laicismo più esasperato, gli input trasmessi da soggetti internazionali o da organismi sovranazionali che vanno nella medesima direzione e quell’atteggiamento autolesionista di chi, per motivi ideologici, per la confusione valoriale dilagante o semplicemente per inseguire tendenze diffuse, arriva persino a rinnegare le proprie radici e la propria identità.
Sì, il nostro Paese regge perché la fede vive anche sotto le sue ceneri. Come afferma il compositore austriaco Gustav Mahler (1860-1911), infatti, «la tradizione è custodia del fuoco, non adorazione della cenere». Ecco perché, anche sotto le macerie di un mondo ferito e di una religiosità osteggiata e oltraggiata, il fuoco della fede continuerà ad ardere.
Il fuoco arde sulle montagne del Tirolo a giugno, durante le partecipatissime e scenografiche processioni del Venerdì Santo, da Vercelli a Bormio, da Mantova ad Assisi, da Chieti a Isernia, da Calitri a Taranto, da Nocera Terinese a Trapani e a Caltanissetta, solo per citarne alcune. Ma ciò non vale solo per il riti della Pasqua. Il 14 agosto di ogni anno, a Sassari, i candelieri scendono in strada per ricordare con la “Faradda” (una straordinaria processione, la più importante di tutta la Sardegna) il voto fatto alla Madonna per salvare la città dalla peste del 1652, così come a Viterbo, il 3 settembre di ogni anno, la “Macchina di Santa Rosa” viene sollevata e portata in spalla da un centinaio di uomini in memoria della traslazione della salma della santa, avvenuta nel 1258 su disposizione di Papa Alessandro IV (1199-1261), da una chiesa all’altra della città.
Queste due tradizioni sono state dichiarate dall’Unesco, nel 2013, “Patrimonio immateriale dell’umanità”, insieme ad altre due feste popolari cattoliche: la “Festa dei Gigli” di Nola, in occasione della ricorrenza patronale di san Paolino (il 22 giugno se cade di domenica o altrimenti la domenica successiva), e la “Varia di Palmi”, nell’ultima settimana di agosto, in onore della Maria Santissima della Sacra Lettera, patrona e protettrice della città (è considerata la più grande festa della Calabria). Questi quattro riti costituiscono la “Rete delle grandi macchine a spalla italiane” e vedono sempre una grandissima partecipazione di persone e un notevole coinvolgimento intergenerazionale.
Durante il mio mandato di assessore regionale alla Cultura in Lombardia ho promosso, nell’aprile 2017, in collaborazione con la Fondazione Treccani, un convegno dal titolo Riti, miti e ricorrenze religiose, in cui ho voluto mettere in luce l’importanza e la forza del patrimonio immateriale della mia regione in primis, ma anche quello delle altre regioni italiane ed europee. L’intento è stato quello di approfondire e di condividere il valore del patrimonio identitario dei diversi popoli e dei vari territori per farne un bene comune, una ricchezza sempre più condivisa. Così, esaminando casi concreti di manifestazioni particolarmente significative, è emerso un grande fervore generale, ben radicato e trasmesso di generazione in generazione.
Le migliaia e migliaia di persone che in quelle occasioni sentono il cuore battere per la propria identità, per la propria città, per la propria terra sono l’emblema del fuoco che arde sotto la cenere. Perché il sentimento religioso e di appartenenza a una comunità è qualcosa di ancora più forte della tradizione in sé (anche i carnevali o altri tipi di feste popolari sono tradizionali, ma mancano dell’elemento più propriamente spirituale).
Cito, da ultimo, il pellegrinaggio Macerata-Loreto che si è svolto l’8 giugno e che ha visto anche quest’anno la partecipazione di migliaia e migliaia di persone (più di 80mila secondo le stime), soprattutto giovani, da diverse parti d’Italia e dal resto del mondo.
Ecco perché, nonostante la difficile fase storica e socio-culturale che si sta attraversando, nonostante ci sia chi si diverte a bestemmiare, a oltraggiare i simboli sacri della cristianità, a provocare chi crede e professa la propria religione (magari attraverso gli spot pubblicitari, la moda, o altre forme di comunicazione o di espressione pseudoartistica che fanno tendenza), la fede resisterà all’odio e alle difficoltà, così come ha retto (e regge tuttora) alle persecuzioni, ai dispotismi e al terrorismo islamico (la Siria di oggi è un grande esempio per tutti).
Perché la fede non fa tendenza. Tutto il resto invece passa, come passano le mode, le correnti di pensiero, le tirannie, le persecuzioni. La fede è un fuoco che arde anche sotto la cenere dei tempi.
Sabato, 29 giugno 2019