« Ora io sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa. Di essa sono diventato ministro, secondo la missione affidatami da Dio verso di voi di portare a compimento la parola di Dio, il mistero nascosto da secoli e da generazioni, ma ora manifestato ai suoi santi. A loro Dio volle far conoscere la gloriosa ricchezza di questo mistero in mezzo alle genti: Cristo in voi, speranza della gloria. È lui infatti che noi annunciamo, ammonendo ogni uomo e istruendo ciascuno con ogni sapienza, per rendere ogni uomo perfetto in Cristo. Per questo mi affatico e lotto, con la forza che viene da lui e che agisce in me con potenza. Voglio infatti che sappiate quale dura lotta devo sostenere per voi, per quelli di Laodicèa e per tutti quelli che non mi hanno mai visto di persona, perché i loro cuori vengano consolati. E così, intimamente uniti nell’amore, essi siano arricchiti di una piena intelligenza per conoscere il mistero di Dio, che è Cristo: in lui sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della conoscenza » (Col 1,24-2,3).
Come è possibile che “manchi” qualcosa alla sofferenza di Gesù? Non è lui il salvatore del mondo? È la ragione per cui molti interpreti non hanno il coraggio di attribuire questo passo a san Paolo. La lettera ai Colossesi è sua, ma questo passo non può essere suo… In realtà non ci sono fondati motivi per non attribuirglielo. « […] ci si deve chiedere che cosa dovesse ancora mancare a Gesù. […]. Il ragionamento si fa interessante soltanto se non si creano distinzioni, ma se la sofferenza dell’apostolo (e di tutti gli altri testimoni sofferenti) rappresenta effettivamente il necessario completamento della passione di Gesù Cristo.
Infatti, con ciò non è detto che Gesù Cristo ha sofferto una volta per noi, e che quindi i cristiani non debbano assolutamente più soffrire. Non è accettabile che uno solo soffra e gli altri stiano senza soffrire. Non c’è nessun testo del Nuovo Testamento che suggerisce questo. È vero piuttosto qualcosa di completamente diverso: nella sua passione Gesù non viene fondamentalmente mai considerato isolatamente.
La sofferenza del cristiano nel mare della passione di Gesù è come una goccia d’acqua nel vino » (Klaus Berger, Commentario al Nuovo Testamento, vol. II, Queriniana, Brescia 2015, p. 337). La liturgia, che rappresenta ancora una volta il commentario più profondo ed efficace alla Sacra Scrittura, esprime questa interpretazione con un rito: prima della consacrazione il celebrante versa un po’ d’acqua nel calice assieme al vino.
Quell’acqua è la nostra partecipazione alla sofferenza di Gesù. È una partecipazione, perché l’acqua si mescola con il vino e – in qualche modo – diventa anch’essa vino; è diversa perché l’acqua non è vino e il vino non è acqua (il quantitativo di acqua dev’essere assolutamente minimale, altrimenti c’è il rischio che il vino non sia più tale, rendendo invalida la Messa); tuttavia la mescolanza rappresenta in modo reale una altrettanto reale partecipazione.
Quella goccia d’acqua mescolata al vino diventa una goccia di vino che, trasformata nel sangue di Gesù, è in grado di redimere e salvare il mondo intero. Il linguaggio figurato è fondato sull’esempio del rapporto con il generale. Nell’obbedienza al generale e nella sua sequela sta una partecipazione viva e concreta alla sua battaglia e alla sua vittoria (cfr. 2Tim 2,12; 2Cor 10,1-6).
Il Santo del giorno: San Pietro Claver, sacerdote