« Mentre alcuni parlavano del tempio, che era ornato di belle pietre e di doni votivi, disse: “Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta”. Gli domandarono: “Maestro, quando dunque accadranno queste cose e quale sarà il segno, quando esse staranno per accadere?”. Rispose: “Badate di non lasciarvi ingannare. Molti infatti verranno nel mio nome dicendo: “Sono io”, e: “Il tempo è vicino”. Non andate dietro a loro! Quando sentirete di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate, perché prima devono avvenire queste cose, ma non è subito la fine”. Poi diceva loro: “Si solleverà nazione contro nazione e regno contro regno, e vi saranno in diversi luoghi terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo. Ma prima di tutto questo metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori, a causa del mio nome. Avrete allora occasione di dare testimonianza. Mettetevi dunque in mente di non preparare prima la vostra difesa; io vi darò parola e sapienza, cosicché tutti i vostri avversari non potranno resistere né controbattere. Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e uccideranno alcuni di voi; sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita » (Lc 21,12-19).
Alla fine dell’anno liturgico la Chiesa ci invita a meditare sulla fine di questo mondo. Finirà bene? La storia del mondo è “commedia”, con un inevitabile “lieto fine”? Oppure è “tragedia”, irrimediabilmente avviato ad una fine catastrofica? La Bibbia ci dice che è un “dramma”. Una vicenda complessa, dolorosa, combattuta, in cui il finale spaventoso e commovente si risolverà inaspettatamente in un bene. Il modello della sua storia è la vita di Gesù, per cui, quando diciamo il Rosario, ripercorriamo la storia del mondo. La faccenda particolarmente interessante per noi è che questo dramma siamo chiamati a viverlo. Non nel senso che certamente parteciperemo fisicamente alla sua fine, ma nel senso che la nostra vita sarà il nostro modo di partecipare alla storia del mondo. Quando sarà la fine non lo sappiamo, e non deve neppure interessarci troppo, ma certamente ci sarà… La fine che più deve interessarci è la “nostra” fine, da aspettare non con l’ossessione del “quando”, ma con la gioiosa e serena anticipazione del “come”. Si racconta che un giorno chiesero a san Luigi Gonzaga, che stava giocando a palla, che cosa avrebbe fatto se gli avessero annunciato che tra un quarto d’ora finiva il mondo… Il santo rispose tranquillamente: continuerei a giocare. Forse vi ricordate la figura dello scudiero del Settimo sigillo, un film di Ingmar Bergman. Lo scudiero accompagna il cavaliere nelle sue avventure, soprattutto in quella decisiva che è la partita a scacchi che lui gioca con la morte. Il film ha dei chiaro-scuri molto forti: sembra che i colori della scacchiera invadano tutto il quadro degli avvenimenti, per diventare il teatro vero della vicenda… Lo scudiero è sempre freddo e calcolatore, ma davanti alla morte perde le staffe e si chiude nel rifiuto. È l’immagine della ragione umana quando si chiude in se stessa e non accetta di essere superata da qualcosa. La domanda sul “dopo” è una domanda religiosa per essenza. Insieme e indissolubilmente anche domanda filosofica. La morte è addirittura per Platone al centro della riflessione filosofica, per cui la vita del vero filosofo si risolve in un “esercizio di morte” (Cfr. Fedone 67 E: «hoi orthôs philosophoûntes apothnéskein meletôsin»). La credenza in una vita oltre la morte accompagna l’avventura dell’uomo su questa terra, per così dire, da sempre. Matrimoni e funerali – diceva Giambattista Vico – sono le attestazioni più antiche e comuni della religiosità e della civiltà dell’uomo (Cfr. Principi di scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni [1744], in: Idem, Opere, a c. di Andrea Battistini, Mondadori, Milano 1990, tomo I, pp. 422-423). Segno che l’uomo, dal momento in cui è apparso sulla scena e ha preso coscienza di sé, ha concepito la vita nel suo inizio e nella sua fine come qualcosa di “sacro” e di “misteroso”, meritevole quindi di attenta riflessione. Giovanni Paolo II, nell’enciclica Fides et ratio, ha elencato quattro domande, che possono essere considerate le quattro domande fondamentali dell’uomo e le ha colte mettendosi in ascolto non solo della filosofia, ma della storia religiosa e poetica dell’umanità: «Un semplice sguardo alla storia antica, d’altronde, mostra con chiarezza come in diverse parti della terra, segnate da culture differenti, sorgano nello stesso tempo le domande di fondo che caratterizzano il percorso dell’esistenza umana: chi sono? da dove vengo e dove vado? perché la presenza del male? cosa ci sarà dopo questa vita? Questi interrogativi sono presenti negli scritti sacri di Israele, ma compaiono anche nei Veda non meno che negli Avesta; li troviamo negli scritti di Confucio e Lao-Tze come pure nella predicazione dei Tirthankara e di Buddha; sono ancora essi ad affiorare nei poemi di Omero e nelle tragedie di Euripide e Sofocle come pure nei trattati filosofici di Platone ed Aristotele. Sono domande che hanno la loro comune scaturigine nella richiesta di senso che da sempre urge nel cuore dell’uomo: dalla risposta a tali domande, infatti, dipende l’orientamento da imprimere all’esistenza» (Lettera enciclica Fides et ratio, del 14 settembre 1998, n. 1). Quando sarà la fine? Non si sa. Gesù usa un immagine molto vivida: quella del ladro. I ladri non si presentano su appuntamento… «Sappiate bene questo: se il padrone di casa sapesse a che ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa. Anche voi tenetevi pronti, perché il Figlio dell’uomo verrà nell’ora che non pensate» (Lc 12,39-40). La venuta del Signore si compie improvvisamente soprattutto quando l’uomo si bea in una sciocca sicurezza: «La campagna di un uomo ricco aveva dato un buon raccolto. Egli ragionava tra sé: Che farò, poiché non ho dove riporre i miei raccolti? E disse: Farò così: demolirò i miei magazzini e ne costruirò di più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e datti alla gioia. Ma Dio gli disse: Stolto [cioè: stupido!], questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà?» (Lc 12,16-20). «Come un ladro di notte, così verrà il giorno del Signore. E quando si dirà: “Pace e sicurezza”, allora d’improvviso li colpirà la rovina» (1 Tess 5,2-3; cfr. 25,1-13; 2 Pt 3,10; Ap 3,3; 16,15). Tutta la nostra vita si svolge alla luce di un giudizio che incombe. C’è però una grande differenza fra il tempo prima e il “tempo” dopo la morte. «Mettiti presto d’accordo con il tuo avversario mentre sei per via con lui, perché l’avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia e tu venga gettato in prigione. In verità ti dico: non uscirai di là finché tu non abbia pagato fino all’ultimo spicciolo!» (Mt 5,25). Il sacramento della penitenza ha la forma di un processo: noi siamo testi di accusa e ci sottoponiamo volontariamente al giudizio di Gesù, tramite il suo ministro, che è giudizio di misericordia. Alla nostra morte, subito, saremo immersi nella luce di Dio che metterà in mostra quelle che realmente siamo. Oggi si va diffondendo un’altra concezione della morte apparentemente più rassicurante: quella fornita dall’ideologia della reincarnazione. La morte sarebbe solo un passaggio da un corpo ad un altro, da un’esistenza ad un’altra. Si tratta di una dottrina che ha avuto successo soprattutto in oriente. In occidente non è mai stata completamente dimenticata, ma conosce ora un certo revival. Il cristianesimo l’ha sempre respinta sin dalle origini, perché l’esistenza dell’uomo è unica, come unico il suo corpo: «è stabilito per gli uomini che muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio» (Eb 9,27). Come è evidente dalla parabola del povero Lazzaro e anche dall’episodio del buon ladrone, dopo la morte segue immediatamente il giudizio e la retribuzione in rapporto alla fede e alle opere che da queste fede saranno scaturite. La fede infatti opera mediante l’amore (Gal 5,6) e il giudizio verterà proprio sull’amore: «Alla sera della vita, saremo giudicati sull’amore» (san Giovanni della Croce). Il giudizio incombe sul singolo e sulla storia. Perché il singolo è indissolubilmente legato a tutta la storia. Per cui, finché la storia non è finita non è neppure definitivamente conclusa la vicenda del singolo uomo. Questo è il motivo del giudizio universale e della «risurrezione della carne» che è rimandata a questo evento. «Può un uomo essere considerato già del tutto finito e la sua storia conclusa fintanto che per causa sua si sta ancora soffrendo, fintanto che una colpa commessa da lui continua a ripercuotersi sulla terra e fa soffrire degli uomini? La dottrina del karman (dell’induismo e del buddismo) ha sistematizzato a modo suo questa sapienza da sempre insita nell’uomo e l’ha resa anche più grossolana […]. Tuttavia essa esprime una sapienza arcaica […]: un peccato che continua a ripercuotersi è un pezzo di me stesso, si riflette in me stesso ed è quindi pure una parte del mio costante assoggettamento al tempo, nel quale a causa mia degli uomini continuano a soffrire in un modo molto reale e che riguarda quindi anche me. Tra parentesi: da qui si può comprendere pure la connessione interiore dei dogmi dell’assenza del peccato in Maria e della sua assunzione corporale in cielo: la Madonna è totalmente a casa, perché da lei non è uscita colpa alcuna che faccia soffrire gli uomini e continui ad operare nella passione che è il pungiglione della morte nel mondo» (Joseph Ratzinger, Escatologia. Morte e vita eterna, Cittadella, Assisi 1979, p. 197. Traduz. modificata sull’originale). Ora molte cose rimangono nascoste, ma verrà un giorno in cui tutta la storia sarà giudicata da Cristo. Perché lui è il senso della storia. La nostra vicenda si inserisce in questo grande quadro, dalla Genesi all’Apocalisse. Qualunque sia il nostro ruolo sociale apparente esso ha un senso e un’efficacia rispetto ad esso e anche in quella luce verrà giudicato… Affidiamoci subito al tribunale della misericordia! La giustizia di Dio è l’unica che non ci deluderà mai, perché coincide con la sua infinita misericordia.