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“Aiuto, le donne dell’Isis vogliono tornare fra noi”

4 Marzo 2019 - Autore: Andrea Morigi

Da Libero del 22/02/2019. Foto da affaritaliani.it

Alcune spose dell’Isis non sono riuscite a salvare la pelle. Kadiza Sultana pare che sia morta a Raqqa durante un bombardamento aereo nel 2016. L’anno prima, a sedici anni, insieme alle amiche Amira Abase e Shamima Begun, di un anno più giovani, era partita da Londra per unirsi al Califfato. Tutte e tre si erano sposate con terroristi islamici. E ora la sorte che attende Shamima e Amira è alquanto incerta: se tornano nel Regno Unito rischiano dieci anni di carcere. Ma il governo britannico non vuole nemmeno perdere tempo e risorse per processarle e ha comunicato a Hussen Begun, immigrato dall’Etiopia nel 1999, l’avvio della procedura di revoca della cittadinanza per la diciannovenne, che nei giorni scorsi aveva implorato di poter tornare. Meglio la galera del soggiorno nel campo profughi di Al-Hol, in Siria, dove da qualche giorno Shamima ha dato alla luce un bimbo, figlio del foreign fighter olandese Yago Riedijk e nel frattempo ne ha persi altri due, morti per denutrizione e malattia. Si è rivolta a un avvocato, ma pare sia troppo tardi. E non si tratta soltanto dell’incolumità pubblica, ma anche della diretta interessata perché, una volta riaccolta in patria, potrebbe divenire un obiettivo tanto per i fondamentalisti islamici, che non le perdonano il tradimento quanto per gli estremisti di destra, ha spiegato il ministro della Sicurezza inglese, Ben Wallace. Gli unici disposti a riaccoglierla a braccia aperte sono il leader laburista Jeremy Corbyn e la ministra ombra Diane Abbott. Ma il 65% dei britannici pensa che privarla della nazionalità sia la soluzione migliore, anche se violasse le leggi internazionali.

FANATICHE

Quando fa seguito alla cattura, il pentimento risulta assai meno credibile. Lo sa bene Hoda Muthana, partita dall’Alabama a vent’anni nel 2014 e subito unita in matrimonio con il foreign fighter australiano, Sushan Rahman, il primo dei suoi tre mariti, ucciso a Kobani. Dopo essere rimasta vedova la prima volta, la donna su Twitter esortò i compatrioti alla vendetta: «Americani, uomini e donne, svegliatevi, mettetevi alla guida, affittate un grande camion e fate scorrere il loro sangue, uccideteli». Con la sconfitta militare della jihad, ora ha scelto le vie legali. Ma dove non ha funzionato l’esplosivo, non si rivela efficace nemmeno la carta bollata. Detenuta in un campo profughi in Siria, ha raccontato al New York Times e al Guardian la sua storia strappalacrime spiegando che le manca tanto la famiglia, originaria dello Yemen. Nel tentativo di far valere la propria cittadinanza statunitense, la giovane signora si è trovata contro niente meno che il presidente americano Donald Trump, che si è opposto al rimpatrio ordinando al segretario di Stato Mike Pompeo di non permetterle di tornare nel Paese. In effetti Pompeo sostiene che in realtà si tratta principalmente di una terrorista che «non è una cittadina americana e non sarà ammessa negli Usa. Non ha alcuna base legale, non possiede un passaporto valido statunitense, il diritto ad ottenere un passaporto o un visto per viaggiare negli Usa. Continuiamo a raccomandare a tutti i cittadini americani di non andare in Siria».

TERRORISTI RECIDIVI

Ci sono ottime ragioni per evitare di introdurre un elemento pericoloso e potenzialmente letale sul territorio. Oltre al fatto che i terroristi islamici sono già numerosi, la storia insegna che parecchi si rivelano anche recidivi. Le statistiche 2016 dell’intelligence americana che riguardano i detenuti affiliati ad Al Qaeda liberati dal carcere Usa di Guantanamo, indicano che il tasso di ritorno alla guerra santa si aggira sul 17%, cioè oltre 200 persone pronte a sacrificarsi sulla via di Allah provocando stragi. Se gli stessi criteri valessero anche per i fanatici dello Stato islamico, l’atteggiamento più prudenziale per i governi occidentali consisterebbe nel tenerli lontani. Anche se recitano la parte dei casi umani disperati, come la 19enne tedesca Lenora Lemke, i cui due figli, avuti da un miliziano dell’Isis, ora rischiano di morire di fame. 

Il fenomeno è quasi impercettibile, ma non assente in Italia, dove è ricercata per terrorismo internazionale la 21enne trevigiana di origine tunisina Sonia Khediri, la quale ha dato due figli al numero due dell’Isis, Abu Hamza al-Abidi, poi ucciso da un drone. Sempre dal Veneto, era partita anche Meriem Rehaily, studentessa 23enne di origini marocchine, le cui ultime notizie la danno come prigioniera delle milizie curde. Il 12 dicembre 2017 il Tribunale di Venezia l’ha condannata a quattro anni per essersi arruolata nell’Isis come combattente. Certo, le galere italiana le assicurerebbero condizioni di vita migliori. Ma poi uscirebbe. E reinserirla non sarebbe un’impresa facile, con le abitudini che ha preso fra i tagliagole.

Andrea Morigi

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