Da La bianca Torre di Ecthelion del 03/01/2018. Foto da articolo
La notizia non è nuova, benché ottima, ma i media nostrani ne parlano ora solo perché ne ha parlato il “giornale degl’italiani”, il Corriere della Sera. Per il famoso pellerossa cattolico Nicholas Black Elk si è aperto il processo di beatificazione il 21 ottobre, un sabato, giorno in cui mons. Robert D. Gruss, vescovo di Rapid City, in South Dakota, ha inaugurato l’iter diocesano con la Messa celebrata nella chiesa del Santo Rosario che sorge nel campus della Red Cloud Indian School vicino a Pine Ridge. E c’è già dentro tutto un mondo meraviglioso. Il “Red Cloud” cui è intitolata la scuola è infatti il grande capo Nuvola Rossa (1822-1909) e Pine Ridge è la riserva che sorge là dove proprio Nuvola Rossa chiese ai gesuiti tedeschi e svizzeri di fondare una missione nel 1888. Nuvola Rossa non si convertì mai, ma era affascinato dai missionari cattolici a cui volle affidare i giovani. Altri indiani, invece, si convertirono, a frotte. A cominciare da colui che allora era semplicemente Alce Nero.
Lo scenario è quello degli Oglala, uno dei sette sottogruppi dei Lakota che a propria volta sono uno dei tre gruppi dialettali e una delle sette tribù originarie (nota con il nome di Teton) della confederazione indiana che conosciamo come Sioux (in inglese pronunciato “sus”), cosa che però non è un bell’affare. “Sioux” significa infatti “meno che vipere” ed è l’epiteto con cui i Chippewa, del ceppo linguistico algonchino, indicavano i nemici indiani delle grandi pianure ai propri alleati francesi (le vipere “intere” erano infatti gl’Irochesi, alleati dei britannici, altri nemici).
Alce Nero nacque molto probabilmente nel 1866 in quello che oggi è il Wyoming. Giovanissimo, fu presente alla battaglia di Little Big Horn, il 25 giugno 1876, quando la follia del generale George A. Custer (1839-1876) portò al massacro il Settimo cavalleggeri dell’esercito degli Stati Uniti. Erano i tempi delle sanguinose guerre indiane, un massacro, uno sfacelo. Lo Stato neogiacobino americano nato dalla Guerra di secessione (1861-1865) aveva schiacciato il Sud in maniera infame e ora proseguiva la mattanza verso ovest. Ma a Little Big Horn non fu Alce Nero a pronunciare la famosa frase «Oggi è un buon giorno per morire»: fu suo cugino Crazy Horse-Cavallo Pazzo (1840 ca.-1877), tempo prima. Sono molte, infatti, le bugie circolanti sul conto di Alce Nero.
La maggiore è quella che ne ha fatto l’eroe trasognato di un nostalgismo arcadico e manicheo in cui i cattivi sono sempre e solo i bianchi. A forgiarla è stato il poeta statunitense John G. Neihardt (1881-1973) con un volume fantasioso del 1932, pubblicato e ripubblicato in Italia da Adelphi con il titolo Alce Nero parla. Avrebbe dovuto essere il resoconto delle parole dell’indiano, ma è stata una pagliacciata di cui la vittima non si rese conto perché non leggeva l’inglese. I suoi parenti però sì, ed è per questo che sin dal 1934 si è aperta una querelle con Neihardt definito «bugiardo».
Alce Nero era dapprima stato un “uomo-medicina”, fortemente religioso come lo sono in genere i Sioux. I missionari però non li detestava affatto. Non solo: non detestava nemmeno alcun bianco, visto che si legò addirittura a William Frederick Cody (1846-1917), il famoso “Buffalo Bill” che non era esattamente un amico dei pellerossa ma che alla fine imparò ad apprezzarli, che fu sì massone ma che in punto di morte ricevette il battesimo cattolico. Alce Nero interpretò l’indiano romanticizzato nel suo “Buffalo Bill Wild West Show”, un circo creato nel 1883 che portò nel mondo, e pure in Italia, anche Sitting Bull-Toro Seduto (1831-1890) e Calamity Jane (Martha Jane Canary-Burke, 1852-1903). Per inciso, Toro Seduto fu battezzato (anche se praticò il cattolicesimo male) e fu forse lui a spingere Buffalo Bill alla fede. Quanto ad Alce Nero, nel 1892 smise di girovagare e sposò Katie War Bonnet, una Lakota, da cui ebbe tre figli, tutti battezzati cattolici visto che l’indiana si era convertita. La donna morì nel 1903, ma aveva esercitato grande influenza sul marito, che infatti si convertì pure lui venendo battezzato il 6 dicembre 1904, nel giorno di san Nicola (270-343): il giorno del santo vescovo di Myra, nella Licia del IV secolo, di cui ammirava la grande generosità (è lui infatti il vero “Santa Claus”, l’unico “Babbo Natale”). Per questo Alce Nero volle assumerne il nome, Nicholas, trasformando, come è d’uso, il proprio soprannome indiano anglicizzato in cognome: nacque così Nicholas William Black Elk (che nel 1905 si risposò con Anna Brings White, una vedova lakota madre di due ragazzi da cui ebbe altri tre figli, nata nel 1871 e morta nel 1941).
Un episodio significativo della sua conversione è quando, da sciamano, visitò un piccolo malato ma venne cacciato da un gesuita. Lucy Looks Twice (1907-1978), figlia di Nicolas e della sua seconda moglie Anna, riferisce che per il padre fu come la caduta da cavallo per san Paolo; del resto è Lucy la fonte della verità su Nicholas, narrata all’antropologo Michael F. Steltenkamp, poi entrato della Compagnia di Gesù e oggi docente di Studi religiosi nell’Università gesuita di Wheeling, in West Virginia. Questi aveva iniziato con i soliti stereotipati su “cow boy e indiani”, ha accettato d’insegnare nella Red Cloud Indian School per approfondire la materia, ma, incontrata Lucy, ha cambiato prospettiva, ha riguadagnato la fede fino alla vocazione e ha pubblicato due volumi scientifici. Uno è tradotto anche in italiano con il titolo Alce Nero, missionario dei lakota (a cura di PierLuigi Zoccatelli, Mondadori, 1996) e il secondo è Nicholas Black Elk: Medicine Man, Missionary, Mystic (University of Oklahoma Press, 2009).
Una volta convertitosi, Nicholas Black Elk dichiarò di volere fare il catechista per tutta la vita, e così fece, insegnando, esemplificando, convertendo. Amava il rosario e le Messe latine cantate. La sua vita è sempre stata accompagnata da prodigi, e così è stato anche in punto di morte, avvenuta il 19 agosto 1950. E, nonostante la retorica “indianista”, si è sempre adoperato per riconciliare bianchi e pellerossa.
A lanciare l’idea della sua canonizzazione è stato Mark Thiel, archivista nelle Raynor Memorial Libraries della Marquette University di Milwaukee, in Wisconsin, ateneo intitolato a un altro grande eroe delle missioni gesuitiche nordamericane (e notevole esploratore), il padre francese Jacques Marquette (1637-1675). Thiel è stato anche archivista della Tekakwitha Conference e del Bureau of Catholic Indian Missions: la seconda è l’ufficio di sostegno alle missioni cattoliche agl’indiani fondato nel 1874 dall’arcivescovo prima di Newark, in New Jersey, e poi di Baltimora, in Maryland, mons. James Roosevelt Bayley (1814-1877); e la prima è un’istituzione di sostegno all’evangelizzazione dei nativi americani fondata nel 1939 dall’arcivescovo di Fargo, in North Dakota, mons. Aloisius Joseph Muench (1889-1962). È intitolata a santa Kateri (Caterina) Tekakwitha (1656-1680), di stirpe algonchina-mohawk, la prima santa indiana degli Stati Uniti.
Come ha riferito Thiel al National Catholic Register, l’idea di proporre la beatificazione di Black Elk è sorta a Roma il giorno della canonizzazione di Kateri, il 21 ottobre 2012. Lì Thiel incontrò George Looks Twice, nipote di Nicholas Black Elk, che pregava affinché il suo avo salisse sugli altari. Ora, lo stesso Black Elk aveva sottoscritto la petizione per la beatificazione di Kateri nel 1885 quando ancora non era convertito e l’avvio del processo diocesano che lo riguarda è stato la Messa del 21 ottobre, anniversario della canonizzazione della santa indiana. Coincidenze?…
Thiel e George hanno quindi iniziato a raccogliere firme porta a porta e il 14 marzo 2016 ne hanno presentate 1600 a mons. Gruss. Fra queste, anche quella di mons. Charles J. Chaput, arcivescovo di Filadelfia e moderatore episcopale della Tekakwitha Conference, nonché ex vescovo di Rapid City con sangue Pottawatomi nelle vene, il quale ha accompagnato la petizione con una lettera pubblica.
Ebbene, ricordare che tutto (la verità sulla vita di Black Elk e il processo di beatificazione) nasce dai discendenti del santo uomo degli Oglala è fondamentale. Il Corriere della Sera cita infatti solo l’unica voce stonata della faccenda, quella di Charlotte Black Elk, pronipote di bisnonno Nicholas e nipote di zio George, un’attivista indianista ed ecologista che si definisce pagana e che sin dal 2001 sostiene che la conversione di Black Elk è stata dettata solo da opportunismo. E pensare che dietro con il catechista Nicholas si sono convertiti, dice Steltenkamp, circa altri 400 indiani.
Dopo avere ricevuto la petizione firmata, in febbraio mons. Gruss ha nominato un postulatore, William “Bill” White, diacono Lakota, assistito dal padre gesuita Joe Daoust e con il diacono Ben Black Bear della Missione di san Francesco nella riserva indiana di Rosebud, in South Dakota, incaricato di tradurre dal lakota in inglese gli scritti di Black Elk. Poi il 14 novembre l’Assemblea generale della Conferenza episcopale cattolica degli Stati Uniti riunita a Baltimora, dopo avere ascoltato una relazione di mons. Gruss, ha approvata all’unanimità l’avvio della causa. Tutto il resto è preghiera.
Marco Respinti