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“Amministrazione Trump, l’arrivo di John R. Bolton”

27 Marzo 2018 - Autore: Marco Respinti

Da La bianca Torre di Ecthelion del 26/03/2018. Foto da articolo

Il consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, Herbert Raymond McMaster, è stato licenziato giovedì 22 marzo; se ne andrà ufficialmente il 9 aprile. Al suo posto subentra John R. Bolton. I media, soprattutto italiani, ironizzano da tempo sui frequenti cambi della guardia nell’Amministrazione statunitense non riuscendo a resistere alla tentazione d’irridere una volta in più il presidente Donald J. Trump. Solo perché la loro superficialità pettegola non sa come spiegare ciò che accade, o non vuole.

Il punto – l’unico – è che nell’Amministrazione Trump è in corso una lotta acerrima. È così sin dall’inizio e il licenziamento del segretario di Stato, Rex Tillerson, il 13 marzo, ne è stato il punto più acuto. I mondi che si scontrano sono due: i conservatori e la “Destra della Sinistra”, non esattamente, cioè, i liberal diciamo clintoniani, ma certamente i fautori di una visione del mondo più progressista rispetto alla media dell’elettorato trumpiano e forse ‒ oggi come oggi ‒ di Trump stesso. A patto di non farne una caricatura complottista, che invece di spiegare etichetta, li si potrebbe definire “globalisti”. Nell’Amministrazione ce n’è (o ce n’erano) diversi, talora in posizioni chiave. Cosa ci facciano (o ci facessero) è la domanda principale sugli Stati Uniti di oggi cui dovrebbero cercare di rispondere il giornalismo (per esempio quello d’inchiesta) se fosse ancora se stesso e gli analisti, persino gli storici, se riprendessero a fare il proprio mestiere (che non è quello dei partigiani). Per ora può essere sufficiente sussurrare una prima chiave di lettura: Trump, l’uomo che non avrebbe dovuto per nessuna ragione al mondo vincere, ha inaspettatamente scompaginato le carte l’8 novembre 2016. Non lo si ricorderà mai abbastanza. Il mondo politico-culturale che pensava di avere già vinto, e che si apprestava a prolungare disinvoltamente il dominio pressoché incontrastato della visione del mondo sponsorizzata, difesa e promossa dal presidente Barack Obama, si è bruscamente risvegliato dal sogno, ritrovandosi in un incubo a occhi aperti. E ha subito adottato le contromisure. Ne è risultato un governo composito, anzi di compromesso. Bene inteso, sarebbe potuta andare molto, ma molto peggio.

Il compromesso trumpiano si è retto su tre perni: i conservatori, i “globalisti” e i “militari”. Gli ultimi erano, e sono, in parte sovrapponibili ai primi, ma mai senza glosse. Tra loro, certamente Keith Kellog (National Security Council), John F. Kelly (Homeland Security), Michael T. Flynn (consigliere per la sicurezza nazionale) e i ministri Ryan Zinke (Interni) e James N. Mattis (Difesa). I conservatori sono stati ben rappresentati almeno dal vicepresidente Mike Pence, dai consiglieri particolari Stephen K. Bannon e Reince Priebus, dall’ambasciatrice all’ONU Nikki Haley, nonché dai ministri Jeff Sessions (Giustizia), Thomas Price (Salute), Besty DeVos (Educazione), Ben Carson (Urbanistica), Rick Perry (Energia) e Sonny Perdue (Agricoltura) a cui si è più di recente unito l’ambasciatore per la libertà religiosa Sam Brownback. Tra i “globalisti”, i più notevoli sono Jared Kushner (genero di Trump e consigliere anziano del presidente) e, finché è durato, Tillerson. Nota bene: non coincidono di per sé con il personale proveniente dall’alta finanza: il conservatore Bannon viene infatti da lì e lo stesso dicasi per Wilbur L. Ross Jr., ministro del Commercio sostenitore del “nazionalismo” economico trumpiano.

Sotto la superficie del compromesso si è dunque agitata la lotta, che ha rimescolato molti dei nomi delle liste precedenti e la cui vittima più recente è il McMaster succeduto prestissimo al Flynn scivolato su una buccia di banana. McMaster è una vittima del fronte “globalista”. Ha lavorato per l’Institute for Strategic Studies, un think tank finanziato un po’ dal Bahrein e un po’ dal Ploughshares Fund, che a propria volta è finanziato sia direttamente dall’Open Society Institute di George Soros, sia dalla Tides Foundation, pure essa finanziata da Soros, sia dall’International Crisis Group, nel cui consiglio di amministrazione siedono Soros e suo figlio Alexander. Ora, il Ploughshares Fund, cui giungono i denari anche di altri “poteri forti” liberal quali la Buffett Foundation, la Carnegie Corporation, la Ford Foundation, il Rockefeller Brothers Fund e la Rockefeller Foundation, e stato descritto da Obama come strategico nel vendere” sui media l’accordo sul nucleare iraniano. Infatti il nervo scoperto adesso è l’Iran, cioè il nodo Iran-Siria-Russia. I casi, infatti, sono due: o la linea Obama oppure la linea Trump. La prima è quella della nullità sul piano internazionale, se non persino dell’appoggio positivo ai fronti sbagliati (certi gruppi ribelli siriani jihadisti, le “primavere arabe”, la guerra in Libia), la seconda il suo opposto che inevitabilmente riporta gli Stati Uniti in quei quadranti di cui Obama si è disinteressato e dove altri hanno nel frattempo colmato il vuoto: la Russia.

È verissimo che Trump non ce l’abbia per partito preso con Vladimir Putin, ma ciò non toglie che la linea Trump sull’Iran per la questione nucleare (gravissima, svenduta da Obama per un piatto di lenticchie, e forse nemmeno) comporti inevitabilmente ostilità verso la Siria (questioni di alleanza sciite) e dunque con la Russia (sostenitore storico della Siria, e quindi dell’Iran). Ed è qui che entra in gioco Bolton. Classe 1948, ambasciato all’ONU nel 2005 e nel 2006 su nomina del presidente George W. Bush Jr., descritto come un “neoconservatore” quando i media non sapevano dire altro e oggi come un “nazionalista”, visto che i media non sanno dire altro, è il modo con cui Trump  muove un ennesimo attacco ai “globalisti” dentro la Casa Bianca. Qualche conservatore storce il naso per l’appoggio incondizionato dato da Bolton alla guerra in Irak scatenata nel 2003, qualcun altro per il suo antiabortismo che ammette eccezioni (stupro, incesto, salute della madre) e per il favore con cui guarda i “matrimoni” omosessuali. Ma il compito che il presidente gli ha affidato è un altro: ribaltare otto anni di politica estera renitente di Obama, rimettendo gli Stati Uniti al centro della scena mondiale come McMaster (e Tillerson) non si è rivelato in grado di fare. Come scrisse il neoconservatore Max Boot nel 2005, per quel compito «Bolton non è simpatico. È bravo». E tra l’altro, a suo tempo, ci raccontò tutta la sua preoccupazione per il dilagare della cristianofobia.

Marco Respinti

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