Il ciclo di articoli riguardante la musica del XX secolo prosegue con uno dei compositori più influenti e determinanti dell’intero secolo: Arnold Schönberg (1874-1951), di cui proponiamo l’ascolto del De Profundis op. 50b, in continuità tematica con lo scorso articolo sulla Sinfonia di Salmi di Stravinsky. Il brano può essere ascoltato CLICCANDO QUI .
di Marco Drufuca
Come risulta evidente dagli ascolti proposti finora, già dalla fine del XIX secolo il linguaggio tonale tradizionale entrò in crisi, venendo gradualmente superato o quantomeno integrato con nuove tecniche, scale e procedimenti armonici.
Uno dei frutti di questa evoluzione fu la ”emancipazione della dissonanza”: fino ad allora, essa era concepita unicamente come elemento di tensione che richiedeva di essere “risolto” nella consonanza. Tuttavia, nel tempo l’uso delle dissonanze si fece tale che esse cominciarono ad acquisire valore proprio, cessando di essere percepite unicamente in funzione della loro risoluzione. Si aprì così la strada alla de-funzionalizzazione dell’armonia: vale a dire, gli accordi non necessitarono più di essere accostati secondo una stringente logica sintattica di preparazione e risoluzione “ortodossa” delle dissonanze, ma iniziarono ad essere accostati l’uno all’altro con nuovi criteri.
A partire da queste premesse, verso la fine del primo decennio del ‘900 Schönberg operò una prima scelta radicale: la totale “sospensione dell’armonia” e il tentativo di scrivere in uno stile non più vincolato da alcuna legge armonica, in un periodo che viene comunemente definito come “atonale”. Ben presto fu evidente che questo “amorfismo della atonalità” (Bernstein) richiedeva nuove regole che permettessero al compositore di organizzare il materiale: come riconobbe lo stesso Schönberg, “fin dall’inizio mi fu chiaro che si sarebbe dovuto trovare un sostituto per la scomparsa degli strumenti tonali di costruzione della forma […] a partire da qui giunsi fino alla composizione dodecafonica”
In tale scrittura dodecafonica (o, come si tenderà a chiamarla nei suoi sviluppi successivi, “seriale”), ogni brano è costruito a partire da una serie composta dalle 12 note che dividono l’ottava disposte a piacimento del compositore con un’unica regola: all’interno della serie, nessuna nota può comparire due volte. Alla base di tale sistema c’è quindi una disposizione arbitraria delle note, o meglio, una disposizione che non riconosce alcuna gerarchia tra i suoni, ma dispone le note in maniera tale che siano “relazionate unicamente l’una all’altra”.
Trascendendo le intenzioni del suo ideatore, questo nuovo metodo di composizione avrebbe cambiato l’idea stessa di musica e del significato dell’arte. Nel secondo dopoguerra, infatti, unendo la scrittura dodecafonica così come era stata ulteriormente sviluppata da Anton Webern con alcune intuizioni in campo ritmico di Olivier Messiaen si estese l’uso della serie prima al ritmo e in seguito a tutti gli altri “parametri” del suono, quali il timbro e l’intensità. Si arrivò a cercare la “sottomissione a un sistema di controllo quasi automatico”, e i compositori di questo nuovo serialismo integrale “si concepirono impegnati in primo luogo nella struttura e nell’organizzazione, come architetti o ingegneri del suono. Svilupparono le loro idee con rigore quasi scientifico; si parlava molto di “ricerca”, e molta matematica si trova nei loro scritti.”(Griffiths)
Oltre alle innovazioni tecniche, una nozione fondamentale dello stile e dell’estetica di Schönberg fu la sua idea di “prosa musicale”, intesa come “la presentazione dritta al punto delle idee musicali, senza imbottiture e vuote ripetizioni”: la musica dovrebbe “produrre costantemente qualcosa di nuovo” (Besseler), eliminando tanto le simmetrie tradizionali (ad esempio la costruzione di un tema su due nuclei di 4 battute l’uno) quanto le ripetizioni del materiale che le forme tradizionali prevedevano, richiedendo così all’ascoltatore uno sforzo sempre nuovo di ascolto e comprensione del materiale proposto.
Infine, vale la pena soffermarsi sulla cifra espressionista di Schönberg, dove, soprattutto nella maturità, l’espressione di sé divenne l’unico metro di giudizio dell’opera d’arte: “Quanti compongono per piacere agli altri, e hanno in mente il pubblico, non sono veri artisti.[…] Lo scopo dell’artista è quello di elaborare profondamente le sue idee, e questo scopo non dovrebbe essere condannato anche se il procedimento intellettuale dovesse causare la perdita della bellezza superficiale”. Origina così quel fenomeno che Stravinsky criticò a cavallo degli anni ’30 e ‘40: il compositore diventa “un mostro di originalità, inventore della propria lingua, del proprio vocabolario e dell’intero sistema che regge la propria arte; […] arriva a parlare un idioma senza relazioni con il mondo che lo ascolta; la sua arte diventa veramente unica, nel senso che non può essere comunicata e che è chiusa in se stessa”
Effettivamente, ascoltando musica seriale è facile avere la percezione di assistere a qualcosa di puramente cerebrale, dove il bello è sacrificato sull’altare del vero (ma di quale vero, se è scisso dal bello e proviene unicamente dalla mente del compositore?). Altro discorso è quando le tecniche dodecafoniche sono utilizzate come una possibilità tra tante, congiuntamente ad altri sistemi e a scale “naturali” (come per certi versi si può argomentare sia il caso del De Profundis): in tal caso, l’uso della serie risalta come possibilità espressiva per il compositore, da usarsi quando necessario ma da accantonare quando l’intenzione artistica e la bellezza dell’opera lo richiedono.
De Profundis, op. 50b
Questa composizione appartiene al trittico corale conclusivo della produzione di Schönberg, redatto definitivamente nell’anno della morte e incentrato sulla fede ebraica del compositore: aprendosi con Dreimal tausend jahre op. 50a, il cui testo tratto da D. D. Runes muove da un iniziale grido di dolore per il Tempio distrutto fino a una dichiarazione di speranzosa attesa (“I tuoi canti ormai spenti annunciano il ritorno di Dio”), l’opera 50 prosegue con il De profundis, cantato secondo il testo ebraico, e termina con il Moderner psalm op. 50c, su testo dello stesso Schönberg.
Guardando alla serie di riferimento di questo brano, sembra che “Schönberg abbia costruito la sua serie in modo da massimizzare ogni possibile riferimento tonale” (Couvillon): questo permette all’autore di creare una notevole dialettica tra l’angoscia del peccatore, espressa con il duro linguaggio seriale, e la speranza nella misericordia divina, comunicata mediante un diradamento delle dissonanze e una moltiplicazione delle allusioni tonali.
Oltre a questo percorso di crescente speranza, il compositore presenta la relazione uomo-Dio mediante l’uso di forti contrasti. Salta subito all’orecchio l’uso simultaneo del canto e del parlato; similmente anche le dinamiche sono usate per esprimere con chiarezza questa dualità quasi dialettica tra l’uomo peccatore e il suo Signore (si pensi all’improvviso grido “Adonai” – “Signore”- che rompe un’atmosfera altrimenti improntata al piano nelle prime battute).
Destreggiandosi tra questi e altri elementi espressivi, Schönberg segue in questa composizione il cammino tanto del singolo uomo quanto del popolo di Israele che, elevando un grido di dolore dalla condizione di miseria e di peccato, nell’attesa e nella speranza – in questo risalta la sua appartenenza ebraica– scopre e si rifugia nella misericordia del Signore.
Sabato, 30 settembre 2023