Di Stefano Caprio da AsiaNews del 15/10/2021
Secondo mons. Adelio Dell’Oro, vescovo di Karaganda in Kazakistan, la Chiesa cattolica in Asia centrale ha il privilegio di sperimentare “una speranza totalmente nuova”. Essa è sempre ricercata nel segreto e nelle condizioni di minoranza viva delle comunità sparse in Paesi così lontani dalla tradizione cristiana, come quelli ora riuniti in un’unica Conferenza episcopale, che dal Kazakistan coordina le azioni “prudenti e avventurose di tanti missionari”. Il vescovo ha pronunciato queste parole durante un webinar organizzato dalla Pontificia unione missionaria il 12 e 13 ottobre, dal titolo “La missione di evangelizzazione nell’Asia centrale ai tempi dell’Evangelii Gaudium. Contesto, difficoltà, prospettive”.
Mons. Dell’Oro (v. foto) ha richiamato i punti fondamentali dell’enciclica di papa Francesco, ricordando che “la modalità della testimonianza è la gioia”, come richiama il titolo stesso del testo papale. La gioia del Vangelo significa non temere di “essere presenza viva nella storia, mettendo al centro l’importanza dell’uomo attraverso i rapporti personali in un tempo come il nostro, in cui la globalizzazione soffoca il senso di Dio”. Cristo si incontra nella carità, come hanno ricordato i tanti interventi del convegno, ritrovando nei piccoli gruppi e nei tanti incontri la “strada della bellezza”, di cui parlava Dostoevskij: “A Karaganda abbiamo una cattedrale e un organo bellissimi”. Il vescovo ha spiegato che proprio questi pensieri hanno ispirato il suo motto episcopale, “Uno locuntur omnia” (Tutto rimanda a Dio); senza questa certezza “sarebbe meglio seguire il consiglio di Kafka, quando l’agente rispose al viandante che cerca la strada: ‘Rinuncia, rinuncia!’, voltandosi come quelli che ridono di nascosto”.
Le Chiese di Kazakistan, Uzbekistan, Kirghizistan, Turkmenistan, Mongolia e perfino Afghanistan, di cui i protagonisti hanno raccontato in prima persona le vicende, si sentono più libere proprio sperimentando la “grazia di essere una minoranza” e ritrovando il “paradigma del piccolo gregge”, come ha ricordato il moderatore del webinar, il francescano p. Dinh Ahn Nhue Nguyen. Un’efficace metafora di mons. Dell’Oro spiega che i sacerdoti e i vescovi non devono essere “cuochi di bordo, ma comandanti che indicano la rotta”, richiamando le parole di papa Ratzinger per cui “il futuro della Chiesa è in mano ai santi”. Commovente la testimonianza di padre Giovanni Scalese, superiore della missione in Afghanistan, che ha ricordato l’evacuazione delle religiose da Kabul in agosto come “un vero miracolo divino”.
In questi Paesi si sperimenta “un’era di grandi cambiamenti”, come osserva mons. José Luis Mumbiela Sierra, vescovo della SS. Trinità in Almaty e presidente della conferenza episcopale del Kazakistan, “ma serve un cambiamento personale”. Bisogna fare tesoro della storia dei martiri e dei cristiani perseguitati in queste nazioni nei lunghi decenni del dominio sovietico, “quando eravamo già una vera Chiesa, non all’esterno, ma all’interno”, come ricorda mons. Evgenij Zinkovskij, primo vescovo di cittadinanza kazaka, da poco consacrato. Egli ammonisce che “i sacerdoti locali non sono per forza i migliori, spesso sono molto chiusi nelle proprie realtà” e non riescono a trasmettere la gioia del Vangelo a tutta la popolazione locale, “serve un grande lavoro di formazione permanente”.
L’Asia centrale ha una popolazione giovanissima e in continua crescita, ma anche spinta ad emigrare in realtà più ricche a causa della mancanza di lavoro e delle difficili condizioni economiche. La missione spesso si limita al servizio tradizionale ai cattolici di lingua russa, per la difficoltà del passaggio alle lingue locali: un processo in atto in tutti i Paesi fra molte contraddizioni. I cattolici non hanno del resto la possibilità di attirare persone di etnia diversa da quella polacca, tedesca o ucraina, ma “la fede è questione di contagio, non di proselitismo”, come osserva p. Guido Trezzani, missionario italiano da 30 anni all’opera in Siberia e in Kazakistan.
Come ha osservato p. Jerzy Maculiewicz, francescano in Uzbekistan, “dobbiamo essere sale del mondo, ma non bisogna neanche mettere troppo sale, o si rovina il gusto della pietanza”. Con amarezza, ma senza perdere la speranza, il vescovo Giorgio Marengo della Mongolia ha raccontato che la Chiesa a Ulan Bator “è solo un ombrello per altre opere, una sede di ong straniera”, con i sacerdoti che attendono il visto da oltre un anno in Corea perché “tanto il culto nelle chiese è stato sospeso per il Covid”.
La Chiesa dell’Asia centrale “è vulnerabile come la nostra pessima connessione internet”, ha esclamato il poeta p. Andrzej Madej, superiore della missio sui juris ad Ashgabat, dove esistono solo 150 cristiani (ma con una vocazione sacerdotale). Eppure questo non gli ha impedito di proclamare con forza, tra un collegamento e l’altro della debole connessione, che “Cristo è risorto in Turkmenistan!”.
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