Una cattolica pakistana rifugiata in Italia per aver criticato la legge sulla blasfemia
Vogliono ucciderla per aver svolto ricerche proibite dall’islam.
Ma lo scorso settembre il Giubileo della Misericordia ha portato la cattolica pakistana 28enne Noreen Yousaf a Roma, dove «ho chiesto asilo politico in Italia perché in base all’art. 295 del codice penale pakistano, più noto come “legge anti-blasfemia”, potrei essere condannata a morte».
In patria le è negata la libertà religiosa ed è in pericolo di vita. Qui è in attesa di una decisione sulla concessione della protezione internazionale da parte della commissione che l’ha interrogata il 19 dicembre scorso. Laureata in Scienze dell’educazione a Islamabad, nel frattempo studia in Italia per conseguire il dottorato e presta volontariato per Aiuto alla Chiesa che Soffre, che si occupa dei cristiani perseguitati.
Tutto inizia nel giugno scorso quando un pastore protestante battezza una ragazza musulmana a West Colony Jhelum, unendola in matrimonio con un cristiano. Secondo la legge coranica sono stati commessi due crimini gravissimi: nulla da dire se un musulmano sposa una cristiana, ma le nozze fra una musulmana e un infedele sono vietate. In più c’è l’apostasia, punibile con la morte. Così, «gli ulema incitano le folle contro i cristiani, e a soffrirne le conseguenze non è solo lo sposo, ma anche la sua famiglia e il suo quartiere». La notte del 10 luglio, prosegue Noreen, «la polizia è entrata nel quartiere cristiano di West Colony per arrestare il pastore protestante, senza però riuscirvi. Con la polizia c’erano anche musulmani locali, che hanno rubato e picchiato brutalmente uomini e donne cristiani». Il motivo di tale livore, secondo Noreen, è evidente: «Volevano vendicarsi del matrimonio tra un cristiano e una ragazza ex-musulmana convertitasi al cristianesimo. Hanno distribuito anche volantini nei quali c’era scritto che avrebbero convertito all’islam tutte le ragazze di West Colony, facendole sposare con i musulmani. A questo punto mi sono trasferita a casa di mia sorella, a 200 km da Jhelum, sperando che la situazione migliorasse». Lì inizia a collaborare con il fratello alla stesura di un’opera critica della cosiddetta legge anti-blasfemia. Ma i fondamentalisti islamici vengono a saperlo e chiedono la sua morte in un volantino di minaccia che recapitano al padre della ragazza: «Tua figlia Noreen Yousaf è blasfema perché ha insultato il profeta scrivendo il libro sulla legge della blasfemia e per questo deve essere uccisa».
Per evitare il martirio non le resta che fuggire. In Pakistan rischia il carcere e un processo come la più nota Asia Bibi, la madre di famiglia cattolica finita in cella nel 2009 e condannata a morte l’anno successivo per una denuncia da parte di alcune colleghe di lavoro che l’ accusavano di aver offeso il profeta dell’ islam Maometto.
Come lei, Noreen è una donna e fa parte di una minoranza religiosa.
Nemmeno se si presentasse come vittima avrebbe speranza. Anzi avrebbe la certezza di finire male Perché, sottolinea Noreen, «se mi rivolgessi alla polizia chiedendo protezione e se registrassi io stessa la denuncia per le minacce ricevute sarei subito arrestata e condannata a morte. In quanto accusata di blasfemia, infatti, è sufficiente che sia un musulmano a denunciarmi, anche se l’accusa è falsa. Il Pakistan è vittima del fondamentalismo e dell’ estremismo!», conclude amaramente.
Andrea Morigi
Da “Libero” di mercoledì 18 gennaio 2017. Foto da Aiuto alla Chiesa che soffre