Da La bianca Torre di Ecthelion del 17/01/2018. Foto da articolo
Sedicenti “indianisti” protestano contro la visita del Papa in Cile. La teoria dice che di per sé non ce l’avrebbero con lui, ma che starebbero semplicemente sfruttando un’occasione più unica che rara per dirottare l’attenzione del mondo su una serie di rivendicazioni di gusto no global. Strano modo, però, di non avercela con la Chiesa Cattolica, visto che per farsi notare bruciano chiese cattoliche.
Nei loro effervescenti cahiers de doléances spicca la causa degl’indios Mapuche. È una storia antica. I Mapuche, recita la vulgata, sono gli ultimi indomiti ribelli all’odiato giogo europeo. Hanno cominciato a combattere i Conquistadores a metà Cinquecento e non hanno mai smesso. Rivogliono ancora le terre degli avi. Ma la realtà è un po’ più articolata.
Un milione e mezzo di amerindi del Cile centromeridionale, più altri 200mila dell’Argentina sudoccidentale, s’identificano come Mapuche, un termine composto dai vocaboli “terra” e “gente”, mapu e che, in lingua Mapudungun, idioma che però parla meno di un quarto di quelli che oggi si dicono Mapuche. In verità, “Mapuche” è un nome collettivo: indica un insieme piuttosto diversificato di gruppi umani, accomunati da un retaggio socio-culturale comune e da un’eredità linguistica appunto un po’ teorica. Sono circa l’80% degl’indios del Cile e il 9% dei cileni.
Diversi dagli altri amerindi della Patagonia, e attestati in quelle regioni da circa mezzo millennio prima di Cristo, resistettero con successo all’invasione inca. Per lo più composti di ampie famiglie di agricoltori, non hanno mai avuto un’organizzazione di tipo statuale unitaria. Quando nel 1541 i primi spagnoli arrivarono dal Perù, i Mapuche erano meno di un milione, forse solo 750mila. I Conquistadores chiamarono la regione Araucanía e i Mapuche araucanos. Ne nacque uno scontro continuo, ma non certo una guerra continua. L’attrito inevitabile tra due mondi diversi. Fintanto che restavano distanti, perdurava lo status quo; quando invece entravano in contatto, erano raid, attacchi, uccisioni e distruzione di diversi avamposti e città spagnole. La maggior parte delle vittime fu comunque causata, come sempre, dalle malattie, sconosciute agl’indios, che gli europei si erano portati inconsapevolmente seco. Con il passare del tempo, gli scontri divennero sporadici. Si giunse così, nel 1641, al Trattato di Quillín con cui la Corona spagnola riconosceva l’indipendenza dei Mapuche, fissando il confine al fiume Bío-Bío.
Poi nel 1818 il Cile conquistò l’indipendenza dalla Spagna. Nel 1825 il nuovo Stato cileno ribadì l’indipendenza dei Mapuche, siglando con loro il Trattato di Tapihue, poi però la musica cambiò. Tra i primi anni 1860 e il 1881 lo Stato cileno mise fine all’indipendenza dell’Araucanía, incorporandone i territori. Eppure la sovranità del Cile su quella regione, meno ancora quella degli spagnoli prima, è stata soprattutto simbolica, più una questione di carte geografiche che di presenza reale. Lo afferma deciso lo scrittore argentino Horacio Vázquez Rial (1947-2012). Ex trotzkysta, nel 1974 riparò nella Spagna di Francisco Franco (1892-1975) per paura dell’Alianza Anticomunista Argentina, la formazione paramilitare del terrore guidata da José López Rega (1916-1989), poliziotto, uomo politico, esoterista e massone noto come lo “Stregone”, segretario personale del presidente Juan Domingo Perón (1895-1974). Negli anni Vázquez Rial ha poi mutato orientamento fino ad approdare al conservatorismo e divenire uno degli animatori dell’ambiente politico-culturale da cui nel 2006 è nato a Barcellona il nuovo partito di centrodestra anti-indipendentista catalano Ciudadanos di Albert Rivera. Spiega Vázquez Rial che di fatto, anche dopo averli annessi, lo Stato cileno non ha mai davvero occupato i territori dei Mapuche. La sua vera presenza fisica è tarda, dell’inizio del Novecento, allorché alcuni coloni s’insediarono volontariamente in quella regione avendo ricevuto in concessione dal governo terre da coltivare. Ma «a quel tempo non si videro indiani che rivendicarono alcunché. Qualora ve ne siano stati, non conoscevano comunque la nozione di proprietà, che è un’invenzione d’importazione che oggi usano per impossessarsi di luoghi che hanno già occupato, armati ideologicamente dalla modernità».
Un altro pezzo forte del rivendicazionismo più indianista che indio è il regime del generale Augusto Pinochet (1915-2006), accusato di ogni nefandezza anche conto gl’indios. Ma non è così. Nel febbraio 1989, i Consejos Regionales dei territori Mapuche (cioè gli organi amministrativi locali) lo hanno nominato “Grande Autorità” con una motivazione netta: «La Giunta generale di Loncos y Caciques de Nueva Imperial e dei trenta comuni della IX Regione dell’Araucanía ha stabilito di nominare S.E. il Presidente della Repubblica Capitano Generale Augusto Pinochet Ugarte, “Ulmen Futa Lonco”, vale a dire Capo Supremo, Condottiero e Guida, per essersi prodigato sin dall’inizio del proprio mandato presidenziale affinché il Popolo Mapuche ricuperasse la propria dignità ricevendo i benefici sociali e la proprietà della sua terra negatagli dalla storia». Tra il 1979 e il 1990, infatti, l’applicazione dell’articolo 25 del decreto legge 2.568, firmato da Pinochet nella città di Villarrica, in Araucanía, prima trasferì a 2.639 indios la proprietà di 51 aziende agricole per un totale di 113.342,07 ettari, quindi altri 69.984 titoli di proprietà. Privata. Non collettiva. Sottoposta alle regole del mercato. Proprietà nuova. Nessun Mapuche lo ha ritenuto offensivo degli avi. Il web è pieno d’immagini del generale Pinochet vestito da Mapuche. Gl’indianisti invece bruciano chiese andando a braccetto con le FARC colombiane e con l’ETA basca.
Marco Respinti