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“Comey accusa Trump, ma non c’è la “pistola fumante””

10 Giugno 2017 - Autore: Marco Respinti

Da “La bianca torre di Echtelion” del 9 giugno 2017. Foto ABC News

Il presidente degli Stati Uniti Donald J. Trump ha esercitato pressioni sull’ex direttore dell’FBI, James B. Comey Jr., per insabbiare il “Russiagate”. Non essendovi riuscito, il 9 maggio ha licenziato Comey (ora sostituito da Christopher Wray). Chi lo dice? Il licenziato, Comey. Avendo evidentemente trovato quel coraggio di sfidare i potenti mancatogli durante le investigazioni sulle famose e potenzialmente compromettenti email nascoste e distrutte di Hillary Clinton, Comey ha scritto tutto in una deposizione spontanea diffusa mercoledì, il giorno precedente la sua audizione alla Commissione sui servizi segreti del Senato di Washington, ovvero in tempo utile a far sì che ieri, giorno dell’udienza, le prime pagine di giornali e notiziari, non solo negli Stati Uniti, diffondessero la sua campana senza contradditorio.

L’odore è quello di ostruzione della giustizia. Trasmessa in streaming, a tratti l’audizione è sembrata una causa per ingiusto licenziamento. Comey ha detto più volte di essere caduto dalle nuvole quando ha saputo di essere stato messo alla porta giacché responsabile della presunta inefficienza della polizia federale a fronte dei precedenti e reiterati sensi di stima espressigli da Trump, corroborati da tre richieste di rimanere al suo posto. Ma forse la cosa chiedeva un prezzo. L’insabbiamento delle indagini su Michael T. Flynn, l’ex Consigliere per la sicurezza nazionale dimessosi il 13 febbraio per “connessioni con la Russia”. Indagini solo su lui o su tutto il “dossier Russia”? I membri della Commissione glielo hanno chiesto più volte e Comey ha sempre detto solo su Flynn. Trump gli ordinò l’alt? Alla Commissione Comey risponde che quella fu allora la sua sensazione: però nella deposizione spontanea scrive solo ‒ due volte, riportando parole virgolettate di Trump ‒ che il presidente sperava che l’indagine su Flynn cadesse.

Ecco qua. Trump ha svolto pressioni antipatiche, ma, con buona pace di chi ha preso a ripassare l’ortografia corretta del vocabolo da prima che egli s’insediasse alla Casa Bianca, Trump non ha commesso illeciti da impeachment. Lo scrive schiettamente, dando per metà ragione all’ex direttore dell’FBI, Andrew C. McCarthy, mai tenero con Comey per le non-indagini sulla Clinton, sulle pagine virtuali di National Review, che è sempre stata la punta di diamante, da destra, del fronte “No Trump”, e lo ripete, sempre su National Review, David French parlando di abuso di potere tipico di uno che non sa bene come ci si comporta da presidente degli Stati Uniti e che pertanto continua a brigare da ducetto come l’amministratore delegato di un’impresa privata. Spregevole, ma qui tutto finisce.

Alla domanda della senatrice Dianne Feinstein, Democratica, membro della Commissione, sul perché nel colloquio più famigerato di tutti quelli dettagliati nella sua deposizione spontanea (sei telefonate e tre incontri), il 14 febbraio, tête–à-tête, Comey non abbia rizzato la schiena dicendo al presidente che la richiesta era una porcata, lo stimatissimo ex direttore dell’FBI ha risposto che sì, avrebbe dovuto mostrare più carattere e farlo. Il senatore della Commissione Marco Rubio, Repubblicano, gli ha posto nuovamente la domanda e ha ottenuto la medesima risposta. Uno se il coraggio non ce l’ha mica se lo può dare.

Malcostume contro pavidità, insomma, se non fosse che a quell’incontro del 14 febbraio, nello Studio Ovale, presenti i capi dei servizi d’intelligence, alla fine Trump chiese di essere lasciato solo con Comey. Il ministro della Giustizia Jeff Sessions si attardava, lo stesso faceva il genero-consigliere del presidente, Jared Kushner, e così Trump si trovò a dover congedare esplicitamente entrambi. «Perché è importante?», si chiede acutamente Mattia Ferraresi su Il Foglio, continuando: «La risposta c’entra con la definizione del reato di ostruzione alla giustizia. Secondo il dipartimento di giustizia, questo avviene quando un soggetto “in modo corrotto (corruptly) tenta di influenzare, ostruire o impedire la corretta amministrazione della giustizia”. “Corruptly” è l’avverbio che designa l’intenzione malevola, calcolata, cosciente, commessa in vista di uno scopo preciso. Se il presidente ha una conversazione su un’inchiesta in corso con il capo dell’Fbi, la cosa è sospetta ma non avviene necessariamente “in modo corrotto”. Ma se un presidente congeda esplicitamente, davanti a testimoni, il procuratore generale – a cui il capo dell’Fbi risponde – per parlare a tu per tu con il direttore dell’Fbi di un’inchiesta in corso, le possibilità che esista, oltre al fatto, anche l’intenzione di influenzare l’indagine crescono enormemente». Perfetto. Il fattaccio si sarebbe dunque consumato senza testimoni. Basta la parola di Comey. Basta la parola di Comey?

Alla domanda del vicepresidente di Commissione Mark R. Warner, Democratico, sul perché abbia messo per iscritto da subito i contenuti dei colloqui con Trump, stilando dei memorandum non secretati (e quindi facilmente consultabili) condivisi con gli altri leader dell’FBI, Comey ha evocato una concomitanza delicata di tre motivi: le circostanze (lui e Trump erano da soli), la materia in oggetto (connessioni con la Russia) e la natura del personaggio Trump. Comey temeva cioè che questi avrebbe un giorno potuto mentire sui contenuti di tali colloqui. E così, per difendersi, ha scritto lui la verità vera, quella che non ha testimoni.

Ora, nessuno può affermare che Comey menta. Nessuno può però nemmeno affermare che Trump menta. La presunzione d’innocenza fino a prova contraria vale per entrambi: è il cardine della nostra civiltà giuridica. Dalle parola occorre allora passare ai fatti. Al momento, invece, ci sono solo parole.

Comey è un uomo d’onore, ma gli americani e il mondo si aspettano che le sue accuse gravissime (sotto giuramento ha dato del bugiardo in diretta mondiale al presidente degli Stati Uniti) siano confermate da riscontri. Magari anche da fatti. Che Comey abbia graziato più volte la Clinton e compagni per il famoso scandalo email è un fatto. Che ciò getti più di un ombra su Comey è un altro fatto, nonostante Trump si sia mezzo rimangiato che sia questo il motivo del suo licenziamento. Che Trump non sia mai stato indagato per il “Russiagate” è un ennesimo fatto che Comey ha tardato molto a esplicitare in pubblico, mandando su tutte le furie quello stesso Trump che gli aveva domandato di restare a capo all’FBI. Ma ancora nessuno ha detto quale sarebbe il delitto del “Russiagate”. Perché l’unica vittima finora mietuta da quello “scandalo” è il consigliere Flynn, il quale però si dimise per avere mentito al vicepresidente degli Stati Uniti costringendo lo stesso vicepresidente, allora ignaro, a mentire in tivù, non per avere del tutto lecitamente incontrato l’ambasciatore russo a Washington. Che incontri così siano perfettamente leciti lo ha detto anche Comey alla Commissione.

Qualora emergessero altri fatti, si giudicherà di conseguenza. Ma nulla di quanto sinora detto sarà meno vero. L’isteria di politici, media e piazze ha già però sortito un pessimo effetto. Quello di far passare da partigiani trinariciuti di Trump tutti coloro che si ribellano alla caccia alle streghe scatenata contro un presidente che, quali che siano i suoi demeriti, ha se non altro il merito di non appartenere ‒ con quel che di positivamente positivo talora ci scappa nel mezzo ‒ al club di lorsignori.

Marco Respinti

 

 

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