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Condannata la jihadista italiana. Ma è sparita

21 Dicembre 2016 - Autore: Andrea Morigi

Nove anni a Fatima, fuggita in Siria per combattere con lo Stato islamico. Giudicati colpevoli pure il padre e il marito

Nell’esporre ai genitori il suo progetto di vita e di civiltà islamica, Maria Giulia Sergio non poteva essere più chiara di così: «Noi qui ammazziamo i miscredenti, tagliamo le teste e conquisteremo Roma nel nome di Allah».
«Qui», con ogni probabilità è la Siria, dove la donna, che si fa chiamare Fatima come una delle figlie di Maometto, se non è morta sta ancora vagheggiando il Califfato. Almeno finché la realtà non si farà strada e la raggiungerà anche lì, come sta accadendo con la liberazione di Aleppo, o con una condanna giudiziaria a nove anni, come quella che le è stata inflitta ieri dalla corte d’ assise di Milano. Lei e il marito albanese Aldo Kobuzi, non riconoscono la giustizia dei miscredenti che ha comminato nove anni a lei, dieci a lui e otto anni ciascuna a Donica Coku e Seriola Kobuzi, suocera e cognata di Fatima. Con loro, anche alla giovane ritenuta l’indottrinatrice di Fatima, Bushra Haik, è arrivata una condanna a 9 anni per terrorismo internazionale. Tutti latitanti. Magari, finché se ne stanno sotto l’ala sempre meno protettrice di Abu Bakr Al Baghdadi, possono anche trascurare la sentenza. Ma prima o poi dovranno farci i conti.
Cinque anni e quattro mesi, con il rito abbreviato, se li era presi nel febbraio scorso, anche Marianna Sergio, sorella minore di Maria Giulia.
Sono le prime due foreign fighter italiane condannate. È la prova che l’ Italia è un Paese esportatore, mica soltanto importatore, di guerra santa. C’ è una rete di reclutatori, per lo più radicata nei Balcani, in Bosnia e in Albania, ma fra il centinaio di mujaheddin partiti dalla Penisola, vi sono anche italiani.
Chi lo ha amaramente dovuto constatare e oggi maledice il Corano è il padre di Fatima, Sergio Sergio. Dovrà scontare quattro anni per organizzazione di trasferimenti a scopo di terrorismo. Non vuol più avere nulla a che fare con le figlie e in carcere è pure rimasto vedovo. Per lui, semmai, la conversione è coincisa con la disgrazia di Dio. Sua moglie, Assunta Buonfiglio, è morta a 60 anni nell’ottobre del 2015, dopo essersi lasciata illudere di poter andare a coltivare l’ orto nei territori dove l’Isis non lascia altro che distruzione.
Lei, immigrata dal Meridione, in principio non voleva avere niente a che fare con la guerra di Allah. Solo che una mamma non vuole essere abbandonata dalle figlie. In fondo, le bastava poco.
Chiedeva soltanto, mentre gli altri facevano la jihad, di poter avere una lavatrice.
L’ avevano fermata prima che espatriasse e rinchiusa in un carcere nel luglio 2015, dopo aver intercettato le sue conversazioni telefoniche con la figlia maggiore. Poi aveva chiuso la sua esistenza all’ospedale di Vigevano, nel Pavese. Il marito voleva un funerale cattolico, per cancellare l’ombra di quel burqa imposto alle donne di casa.
L’ avvocato Erika Galati, che ha difeso l’ ex capofamiglia, non si rassegna: «Non voleva andare in Siria per combattere, lui voleva solo tenere unita la famiglia e le figlie lui le ha sempre subite». Lo avevano convinto con la promessa di un kalashnikov come omaggio di benvenuto fra i jihadisti. Poi anche lui si era reso conto dell’ errore. Troppo tardi. In una lettera dal carcere, Marianna si era rivolta così al padre: «Tu ci hai sempre ingannato, hai fatto finta di essere un musulmano e ne risponderai davanti a Dio, pentiti davanti a Dio e all’ unica religione che è l’ islam». Semmai, ora, lui si pentirà di essersi trasferito dalla natìa Campania a Inzago, nell’hinterland milanese, nel 1995. Cerca misericordia e, dagli arresti domiciliari, ha iniziato a frequentare un prete.

Andrea Morigi 

Da “Libero” del 20 dicembre 2016. Foto da News Italiane

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