La frase «Oggi è un buon giorno per morire» non la disse a Little Big Horn il famoso Alce Nero, ma suo cugino Cavallo Pazzo tempo prima. Dei pellirossa, cioè, sappiamo ben poco. Ottimo dunque Al Dio degli inglesi non credere mai. Storia del genocidio degli indiani d’America, 1492-1972 (Oaks Editrice) di Gianfranco Peroncini e Marcella Colombo, giornalisti e fotografi con la passione per i quattro angoli del globo. La messe d’informazioni e di dati raccolti è infatti imponente (meno il titolo, un verso di Coda di lupo di Fabrizio de André che parla più gl’indiani metropolitani che degl’indiani d’America), anche se, proprio per questo, delle note al testo non avrebbero guastato (come qualche sforbiciata alla bibliografia, per esempio su Atlantide…).
Dell’ambizioso arco temporale scelto l’inizio è ovvio: la scoperta dell’America, meno la fine. Il 1972 fu l’anno della grande marcia di protesta (la “Pista dei trattati infranti”), un anno d’incidenti, scontri e tensioni, ma l’epilogo della triste vicenda indiana è il 1973, a Wounded Knee, riserva di Pine Ridge, South Dakota. Qui, il 29 dicembre 1890, quel che restava del Settimo Cavalleggeri aveva sterminato più di 300 uomini, donne e bambini Sioux. Tra febbraio e marzo 1973 gli attivisti dell’American Indian Movement occuparono quindi per 71 giorni quel luogo altamente simbolico. Ci furono dei morti. Uno dei primi gesti ribelli fu demolire la missione cattolica che Alce Nero aveva contribuito a erigere e la lapide in sua memoria (mentre la figlia dell’indiano, Lucy Looks Twice, si opponeva agli occupanti). Sì, perché quell’indiano mitico era stato battezzato cattolico con il nome di Nicholas il 6 dicembre 1904, faceva il catechismo ai piccoli, amava la Messa in latino e recitava fedele il rosario. Solo la scorrettezza del poeta statunitense John G. Neihard, autore del famoso Alce Nero parla (Adelphi), ne ha potuto “reinterpretare” la vita.
Bene dunque che Alce Nero sia un po’ ovunque nel libro di Peroncini e Colombo, i quali conoscono (lo citano in bibliografia) il libro a lui dedicato (c’è anche in italiano) da Michael F. Steltenkamp, gesuita, nipote del famoso indiano, contenente tutta la verità. Perché dell’atteggiamento dei “bianchi” verso gl’indiani un punto nodale non va trascurato: un conto sono i missionari cattolici, un altro certe teologie protestanti, peggio ancora i protestantesimi secolarizzati in ideologia yankee. Alce Nero lo dimostra. Ma non solo. La “sua” riserva di Pine Ridge fu eretta nel 1888 da gesuiti tedeschi e svizzeri quando il grande capo Nuvola Rossa chiese a Washington missionari cattolici, migliori dei protestanti. Un altro esempio è il gesuita belga Pierre-Jean De Smet, la cui storia è narrata e illustrata in Sacred Encounters: Father De Smet and the Indians of the Rocky Mountain West(University of Oklahoma Press, Norman 1993). Amatissimo dai Sioux e primo vescovo cattolico del Dakota, forse convertì anche il leggendario Toro Seduto.
Ben diverso invece il giro mentale di quelli per cui l’unico indiano buono è l’indiano morto, magari perché “figlio del demonio” in base a qualche teologismo distorto. Ma i grandi massacratori bianchi d’indiani andarono oltre. Gettata la Bibbia alle ortiche, a guidarli fu il giacobinismo nazionalistico suggellato nel sangue della Guerra di secessione (1861-1865) e incubato almeno nel ventennio precedente. Gli eccidi d’indiani furono la logica continuazione dei massacri di “sudisti”, rei, come gl’indiani, di essere diversi. Non a caso i Cherokee di capo Stand Waitie combatterono al fianco dei confederati in quello che oggi è l’Oklahoma.
Quella che ancora resta da scrivere per rendere giustizia a tutti, pellirosse e “visi pallidi”, è insomma una storia globale degli Stati Uniti che metta in parallelo gli uni e gli altri. Le cattiverie e le storie belle; gli eccidi di missionari e le guerre fratricide degl’indiani; l’infamia di certi “bianchi” e il vantaggio che certi indiani trassero dall’allearsi, ancora in epoca coloniale, con quei francesi o quegl’inglesi che massacravano anche per conto loro le tribù rivali. Un buono inizio sono gli studi di quel Raimondo Luraghi, scomparso nel 2012 e invidiatoci dalle università statunitensi (ma assente nella bibliografia di Peroncini e Colombo), che si è occupato sagacemente anche d’indiani e di “sudisti”.
Ma anzitutto bisogna andarci cauti con il termine “genocidio”. È infatti un “marchio depositato” dalla precisa valenza giuridica internazionale e oggetto di ottimi studi oramai anche in italiano. Affinché sia genocidio occorre intenzionalità, premeditazione, scientificità. Dal 2007 giace disattesa nel parlamento francese la proposta di legge per il riconoscimento del genocidio della Vandea che genocidio fu davvero. Gl’indiani d’America massacrati meritano quella giustizia che un processo sommario ai loro sommari massacratori ancora negherebbe.
Marco Respinti
Articolo apparso su “La Bianca Torre di Ecthelion” del 28 luglio 2017.