Da La bianca Torre di Ecthelion del 17/01/2018. Foto da articolo
Timore e tremore: nulla meglio della seconda lettera di san Paolo ai Corinzi, con cui Johannes de Silentio, cioè Søren Kierkegaard, ha filosofato con lirismo sublime, descrivono l’animo di chi viola una coscienza frugandone i cassetti. Soprattutto quando si tratta di Fëdor Michàjlovič Dostoevskij (1821-1881) e de I demoni quotidiani, i due volumi di quasi mille pagine che ne raccolgono le lettere, un classico impolverato e all’epoca, era il 1950, intitolato laconicamente Epistolario che felicemente la milanese Aragno riedita nella maestria della curatela di Ettore Lo Gatto (1890-1983), indimenticato iniziatore della slavistica italiana.
«Non una sola lettera di Dostoevskij», avverte Lo Gatto, «fu scritta col pensiero che essa potesse essere letta da altri che non fosse il destinatario o persona a lui vicina per ragioni insite nel contenuto della lettera stessa». Anzitutto il fratello Mihaìl Michàjlovič, morto nel 1864, poi gli affetti più cari, quindi certi nomi celebri del tempo e altri che avrebbero solo voluto esserlo, dunque gli editori e persino lo zar che nel 1839 lo ha condannato a morte e poi graziato con quattro anni ai lavori forzati. Ma l’uomo è capace di sfondare i recinti più sacri. Fortunatamente. Altrimenti non conosceremmo nulla di autentico dei “grandi”. L’opera di un autore, se è davvero grande, non si spiega con la sua biografia. Essa sfugge infatti ai misurini dell’anatomopatologo travestito da biografo sprigionando potenza che viene da altrove, da più in alto, anche da più in basso, comunque sempre prima e comunque sempre oltre. Eppure di un autore la sua vita racconta l’imprescindibile, come le vitae e le passiones trasmettono quell’in più che i santi dispiegano rispetto alla banalità. Quel che di Dostoevskij svela il secretum de I demoni quotidiani è che mai titolo fu più azzeccato.
Mai come nelle pagine dell’epistolario lo scrittore russo appare nudo, macerato, conteso da diavoli che ne lacerano le carni. Il gioco d’azzardo e la scrittura smaniosa, il verme dell’ambizione e la galera per sovversione, l’amore trascinante per il fratello e quello illecito per donne sposate, la vedovanza subito doppiata dalla perdita di quell’amato fratello e la questua agli editori, l’ansia petulante nei rapporti umani e la coppia di opposti più clamorosa: quella della disobbedienza civile che lo sprofonda in carcere e la lode cortigiana allo zar, l’autocrate che gli aveva persino fatto provare il terrore fisico di una fucilazione finta (raccontata in una celeberrima lettera del 22 dicembre 1849) e che egli, il 22 dicembre 1856, liscia come l’«[…] essere adorato che ci governa». E poi quella sua costante irregolarità anarco-artistica, istintiva sì ma quanto pure coltivata, di cui scrive all’amante “Polina”, la scrittrice Apollinarija Prokof’evna Suslova (1839-1818) tra il 12 e il 24 agosto 1865: «Mi tormenta ancora Herzen [Aleksandr Ivanovič, giornalista, 1812-1870]. Se egli ha ricevuto la mia lettera e non vuol rispondere – quale umiliazione e quale cattiva azione da parte sua! Che proprio io l’abbia meritato? Per la mia sregolatezza? Riconosco che son sregolato, ma che moralità borghese! Per lo meno rispondi. O io non “ho meritato” aiuto?».
Ma è per questo che Dostoevskij non “ci piace” (questo si dice dei gelati) ma ci chiama. Dostoevskij è Giacobbe che lotta con l’angelo, e dunque tutto l’umano più umano che c’è ritratto perfettamente da Rembrandt, Eugène Delacroix, Paul Gauguin. Nella lotta Dostoevskij perde e, come il patriarca biblico, resta sciancato, dunque vince. Dio lo ha segnato indelebilmente. Tutti perdono lottando con Dio, ma solo i Dostoevskij accusano il colpo della sconfitta vittoriosa. Quella dello scrittore russo non è una storia che si conclude con l’happy ending, ma una vita spesa senza risparmiare un fiato, tirata, tormentata, sin spasmodica che ha però avuto senso vivere. «Perciò non irritatevi contro di me», scrive nella penultima lettera di questo epistolario al giornalista Ivan Sergeevič Aksakov (1823-1886) il 28 agosto 1880, «non pensate che sia indifferenza; se voi sapeste come vi sbagliereste in tal caso! Per adesso vi abbraccio sinceramente e vi ringrazio dal fondo dell’animo. Ho bisogno di voi e non posso non volervi bene». Dostoevskij lo spiegherebbe forse dicendo che così è stato perché lui non se l’è lasciata scivolare addosso ’sta vita benedettamente maledetta. In un mondo ammorbato da troppi “maledetti” fasulli, le sue lettere ricordano che non tutti i demoni vengono per nuocere.
Marco Respinti