Un’opera-manifesto dell’ordine naturale, spirituale e culturale della famiglia e della società: la figura del padre e la sua autorità come servizio alla crescita, alla sicurezza di sé e al senso del limite del figlio. Il legame tra paternità e regalità, intesa come esercizio di un dovere familiare e politico-sociale. Il collegamento tra paternità e trascendenza.
di Filippo Giorgianni
Prima dell’infiltrazione da parte di estremisti ideologizzati nell’organigramma Disney, c’è stato un tempo in cui la compagnia statunitense, ancora legata al fiuto del fondatore, volto ad intercettare i principi della vita familiare e dell’‘immaginario collettivo’ “tradizionale”, proponeva dei capolavori capaci di rappresentare mirabilmente elementi fondamentali della natura umana. È il caso di un capolavoro del 1994 come Il re leone, di cui nel corrente anno cade il trentennale della distribuzione. Si tratta di un’opera talmente pregna di significati che non sorprendono commenti insensati che intendono liquidarla come narrazione «fascista».
L’uso totalmente retorico, antiscientifico e dunque ridicolo del termine fascismo squalifica certamente il livello del commentatore che così si esprima e, tuttavia, tale uso improprio nasconde, a ben vedere, una certa consapevolezza intorno a un’opera che effettivamente rappresenta la summa di tutto ciò che il politicamente corretto pretende di rifiutare tramite l’uso casuale dell’etichetta fascista. Ciò che confusamente questi commenti colgono è il fatto che il trentaduesimo Classico Disney si colloca in diametrale contrasto con tutto ciò che oggi è di moda ritenere “corretto” pensare, credere e propagandare. In altri termini, Il re leone è un concentrato di tutto quello che è inerente la natura più profonda dell’animo umano ma che oggi si vorrebbe negare. Ciò viene rivelato da un’analisi attenta non soltanto dell’impianto complessivo del cartone, ma perfino di alcune scelte sceniche secondarie.
Innanzitutto, la trama ruota tutta attorno alla paternità, elemento naturale e simbolico-archetipico tra i più bistrattati dalla subcultura odierna. La presenza del padre (e anche la sua assenza) sono il fulcro di tutta la storia. Rileva poco che il padre Mufasa – in modo comunque urticante per i postmoderni – venga rappresentato ovviamente come l’apice patriarcale di una società femminile da lui dipendente, poiché ciò discende unicamente da un palese bisogno di parziale realisticità derivante da ragioni zoologiche – i leoni vivendo in branchi di femmine con al vertice uno o, al più, un paio di maschi di cui un dominante e, al massimo, un fratello del maschio-alfa o, più di rado, qualche figlio di quest’ultimo.
Al di là e più di questo, nella pellicola come nella realtà, ciò che conta è che sia il padre a garantire protezione, insegnamento, regole e limiti, incarnando un’evidente autorità derivante dalla forza fisica e anche da una saggezza proveniente dalla tradizione generazionale dei principi cardinali del vivere: è Mufasa a spiegare ciò che ha appreso da suo padre prima di lui, cioè il funzionamento del cerchio della vita, così come la costante presenza spirituale tra le stelle dei padri/antenati già trapassati. La sua autorità non toglie anche un rapporto intenso e non meramente distaccato dal figlio (come invece nello schema “patriarcale” deteriore tipico di un certo immaginario collettivo demonizzante): il severo ma giusto Mufasa sa giocare benevolmente con lui ed è sempre impegnato a proteggere la sua esistenza, centrando in pieno il reale modello psicologico della paternità che, oltre ad incarnare lo stimolo alla crescita, all’indipendenza e al riconoscimento del limite, si sostanzia in quanto oggi acquisito in sede scientifica intorno all’importanza della presenza paterna e del gioco (anche di lotta) col padre per lo sviluppo dell’intelligenza, della sicurezza di sé e di una minore aggressività del figlio.
La sua precoce assenza poi, fa smarrire la via di crescita al piccolo Simba che finisce col vivere alla giornata, senza una prospettiva che non sia unicamente la soddisfazione individuale e l’assenza di ogni responsabilità, tipiche di due soggetti pure dal cuore d’oro, Timon e Pumbaa, che troveranno persino la loro finale “redenzione” nell’aiutare l’amico leone e nella conseguente ammissione alla corte del nuovo re nell’ultima scena, ma che nondimeno sono inizialmente figure di bambinoni superficiali – significativa la liquidazione da parte di Timon della natura delle stelle che, in maniera banale e sbrigativa, pretende di soppiantare sia la descrizione scientifico-naturalistica fornita da Pumbaa sia quella simbolico-esistenziale di Simba (e Mufasa) –, oltre ad essere dei marginali esclusi dall’ordine naturale dei propri rispettivi mondi zoologici (vale a dire sociali) di riferimento (suricati e facoceri). L’implicito riconoscimento che non ogni forma di presunta “genitorialità” sia equivalente e che anzi l’alterazione del ruolo paterno comporti scompensi psico-affettivi non può che essere irritante per la retorica contemporanea sulla presunta fluidità dei generi.
Secondo tema centrale è poi anche la monarchia e il ruolo che essa incarna: la paternità porta con sé la regalità (e quindi, se si vuole, la più generale proiezione socio-politica), poiché il buon padre di famiglia è buon re in quanto padre di famiglia dell’intera comunità politica e viceversa, ma essere padre come essere re non significa avere un potere arbitrario (come riterrebbero il cucciolo Simba o anche l’antagonista Scar). Vuol dire invece esercitare un dovere sacrale e intergenerazionale verso gli altri: innanzitutto, verso la propria famiglia (il branco) che dipende da chi la protegge; secondariamente, verso la propria comunità politica e tutto il creato (gli altri animali della vallata, le piante e il cerchio vitale da essi costituito) in cui un delicato equilibrio obbliga ognuno ad essere incastrato in leggi cogenti che tutti, re compreso, devono rispettare, preesistendo nella natura e nella consuetudine anche al singolo dotato di un potere regale; ulteriormente, verso chi ancora deve venire (che s’inserirà anch’egli nel cerchio della vita) e verso chi non c’è più, il cui onore, i cui tratti genetici, la cui forza e la cui saggezza ogni nuovo nato porta con sé e che deve acquistare tramite uno sforzo di accettazione e attualizzazione. In altri termini, essere re (ed esser padre) significa appunto sapersi addossare una responsabilità – quella di divenir davvero e fino in fondo re, di diventarlo in atto quando ancora lo si è solo in potenza – dalla quale Simba tende a smarcarsi sia per inclinazione iniziale sia per i sensi di colpa ingenerati dagli eventi che lo portano a rimanere psichicamente immaturo, cercando di non affrontare i propri conflitti interiori. In tal senso, dunque, la profondità psicanalitica della sceneggiatura non solo si rivela eccelsa ma il suo stesso collegamento con un’istituzione come quella monarchica, che oggi, nel più generale abbandono della paternità, sembra incomprensibile, rende l’opera vieppiù preziosa (e detestabile per il radicalismo individualista).
Terzo tema è, infine, il collegamento tra paternità, regalità e trascendenza. Il cerchio della vita è non soltanto un meccanismo biologico, bensì anche un processo metafisico di tipo provvidenziale che collega tutto il creato e permette il rigenerarsi della vita stessa, senza dimenticare che la succitata presenza spirituale degli antenati ne fa parte, non essendo soltanto una mera credenza di Mufasa, bensì una realtà che si rende manifesta nella scena in cui quest’ultimo parla al figlio dal cielo, rimanendo poi fondamentale che a sancire tanto il ruolo sacrale del re quanto l’apertura alla trascendenza vi sia una figura sacerdotale-sciamanica come il babbuino Rafiki che, oltre ad intervenire per riannodare i fili della tradizione spezzata e per sanare le ferite psichiche e spirituali del protagonista, adopera un rito a metà fra consacrazione regale e battesimo su ogni nuovo primogenito erede del re in carica: un elemento, anche questo, che non può risultare gradito all’attuale immanentismo occidentale.
Da ultimo, perfino la caratterizzazione degli antagonisti e del cambio dinastico rivela un approccio ben poco moderno o progressista: Scar, infatti, viene delineato non solo come un potere subdolo e tirannico che s’insedia in modo illegittimo (e omicida) al posto del re, ma anche come un vero e proprio demagogo repubblicano che fa leva sull’invidia sociale e sulle promesse “elettorali” indirizzate a una classe subalterna, esclusa e plebea di violenti e stupidi (le iene) che, di fronte all’impegno di garantire loro la sazietà alimentare, si rendono immediatamente disponibili a divenire milizia che letteralmente sfila al passo prussiano di fronte al proprio capo, salvo rinnegarlo al momento del suo tradimento nei loro confronti e della sua caduta in disgrazia. Il regime sociale e politico che ne risulta – esso sì perfettamente aderente al fascismo, al socialismo reale e ad ogni altro autoritarismo e totalitarismo novecenteschi, figli del modernissimo, illuministico ed antitradizionale giacobinismo – non è soltanto illegittimo, ma addirittura riesce a distruggere tutto l’ecosistema della vallata, mostrando didascalicamente (e ancora una volta spiacevolmente a molti contemporanei) come un sistema democraticista involva facilmente in totalitarismo democratico che riesce a produrre unicamente una landa desolata, oltre a divorare gli stessi capi rivoluzionari che vengono uccisi dalla plebe aizzata, nonché che l’ordine sociale non può essere impunemente sovvertito in nome di una facile retorica dell’autodeterminazione individuale di singoli o gruppi sociali senza che ciò conduca alla miseria di tutti.
In ultima analisi, allora, Il re leone non soltanto risulta un drammatico colpo ferale per il progressismo, ma anche un magistrale manifesto di tutto ciò che dovrebbe essere un adeguato ordine spirituale, morale e culturale sia a livello personale sia sociale e financo cosmologico: un’opera da tenere cara e difendere in un’epoca di riscrittura ideologica della storia, di cancellazione della cultura e di manipolazione visiva nei prodotti dell’intrattenimento.
Mercoledì, 20 novembre 2024