di Valeria Sesenna
La moda esprime chiaramente lo stato di una società e indica con ancora maggiore chiarezza dove questa si stia dirigendo. Sarebbe dunque miope considerare gli abiti solo come una semplice vanità; sono invece uno specchio dei valori che un determinato popolo ha deciso di abbracciare.
A marzo dell’anno scorso, la catena di abbigliamento low cost spagnola Zara ha presentato una mini-collezione chiamata Ungendered. Vista la banalità dei capi proposti, la sua esistenza, a parte qualche articolo sulla stampa al momento del lancio, è passata praticamente sotto silenzio.
Di per sé gli abiti, a parte la mancanza di un qualunque dettaglio che li potesse rendere interessanti, non proponevano nulla di diverso rispetto alle centinaia di collezioni unisex esposte nelle vetrine ogni stagione, ma la scelta del nome Ungendered merita attenzione. Perché ungendered e non unisex?
La moda unisex si è affermata a cavallo tra gli anni 1960 e 1970 come ribellione verso i ruoli maschili e femminili presenti nella società, considerati rigidi e limitanti. La proposizione di una moda indifferentemente utilizzabile da uomini e da donne voleva essere l’espressione di un rifiuto della divisione dei ruoli, in favore di una presunta maggiore uguaglianza. Quello che si è ottenuto, però, nella maggior parte dei casi, è la maschilizzazione del guardaroba della donna, che ha preso in prestito linee e capi che prima erano esclusiva dell’uomo.
L’emblema di questa novità è stata la creazione, nel 1966, da parte del designer francese Yves Saint Laurent (1936.2008), di “le smoking”, lo smoking da donna.
Ogni tentativo di femminilizzare il guardaroba maschile, invece, si è sempre rivelato fallimentare, apprezzato solo dai critici di settore, ma stroncato dagli acquirenti.
L’unisex, però, pur applaudito dal mondo femminista, non è mai stato considerato sufficiente dal mondo LGBT, desideroso di una moda molto più inclusiva. L’unisex, infatti, per quanto creato alo scopo di sfumare le differenze fra uomo e donna, aderiva comunque a un modello di genere binario, diviso in uomini e donne, dove non c’era spazio per altre istanze.
La moda genderless, da cui la collezione di Zara Ungendered, strizza invece l’occhio alle cosiddette identità di genere non binarie, cioè coloro che non sentono di appartenere, o di appartenere pienamente, ad alcuno dei due sessi.
Il mondo LGBT infatti distingue “sesso” e “genere”: il primo sarebbe il sesso biologico, assegnato dalla natura; l’identità di genere sarebbe invece ciò che la persona, indipendentemente dal proprio sesso biologico, sente di essere: uomo, donna, entrambi, una via di mezzo o nessuno.
Le istanze della categoria delle identità di genere non binarie, completamente sconosciuta fino a un lustro fa, si fanno lentamente più presenti nei mass-media e nelle sfilate degli stilisti.
Esempi di questo sono le collezioni JW Anderson, brand creato dallo stilista britannico Jonathan Anderso che ha fatto dell’ambiguità di genere il proprio marchio di fabbrica, e del nuovo direttore creativo della maison Gucci, Alessandro Michele, che ha voluto sulla passerella un uomo in camicette di seta, abiti di pizzo e fiocchi.
I trend delle sfilate, però, anche se spesso anticipano quanto andrà di moda tra il pubblico negli anni a venire, restano spesso confinati agli esperti e non sempre arrivano alle persone comuni. Per questa ragione, la decisione di Zara, il cui target sono le persone “normali”, di promuovere una collezione di moda genderless non va trascurata: non si tratta di una decisione casuale, di una semplice copia di quanto visto sulle passerelle, ma del tentativo di promuovere nel grande pubblico una determinata visione della moda e quindi dell’uomo.