Da La bianca Torre di Ecthelion del 13/12/2017. Foto da articolo
Il 17 di Av del 5740, ovvero il 30 luglio 1980, la Knesset, il parlamento israeliano, ha emanato una legge fondamentale (analoga a una legge costituzionale) proclamando Gerusalemme capitale «unita ed indivisa». Ma dopo il riconoscimento di Gerusalemme capitale d’Israele da parte del presidente degli Stati Uniti Donald J. Trump, il 6 dicembre, la grande assente è proprio l’indivisibilità della città. Non ne parla Trump, non ne parla il premier israeliano Benjamin Netanyahu, non ne parla il presidente palestinese Mahmoud Abbas alias Abu Mazen. Che sia questa, allora, la chiave di volta? Nel riconoscimento di Gerusalemme capitale, infatti, colpisce meno il fatto in sé che non il momento in cui ciò avviene, un momento reso ideale dal clima di guerra fredda che aleggia sull’universo arabo-islamico spaccato tra sciiti e sunniti.
Sul fronte sciita ci sono l’Iran, la Siria governata dalla minoranza alauita, le milizie separatiste dello zaidismo in Yemen ed Hezbollah in Libano che pure puntella il presidente cristiano Michael Aoun. Via Damasco, è tutto più o meno in quota russa. Dall’altra parte (il nemico del mio nemico è mio amico) ci sono i Paesi sunniti e dunque gli Stati Uniti. Mentre la Turchia traccheggia attendendo venti favorevoli, l’Arabia Saudita finge di non sentire il mal di pancia e si appoggia a Washington. Ma questo, colmo dei colmi, la colloca di fatto dalla stessa parte d’Israele. Morale, forse la via che porta a Gerusalemme passa attraverso un maxiaccordo epocale e tutto il resto è teatro: sul palco ognuno recita il proprio ruolo storico e dietro le quinte, ottenuto da Israele il sacrificio del mito dell’indivisibilità di Gerusalemme in cambio della garanzia di poter issare la bandiera della vittoria finale, la sostanza potrebbe regalare ai palestinesi una sorte di enclave dorata che ne salvi la faccia e fischi la fine della partita. Scrive infatti Daniel Pipes, fondatore e direttore del Middle East Forum, un think tank consuetamente bene informato, che la decisione di Trump «in effetti riconosce come capitale d’Israele la Gerusalemme ovest pre-1967 e non l’intera Gerusalemme» conquistata con la Guerra dei sei giorni.
Del resto Riad, mentre bolla la mossa l’alleato Trump come «ingiustificata e irresponsabile», pare stia da settimane cercando d’indorare la pillola ai palestinesi, spingendoli ad accettare la decisone della Casa Bianca. Perché? Perché ora l’Arabia Saudita teme più l’Iran che non Israele e così per il nuovo uomo forte di Riad, il principe ereditario Mohammed bin Salman, la sicurezza (e l’egemonia sul mondo arabo-islamico), potrebbe valere bene una Gerusalemme. A novembre il ministro israeliano dell’Energia, Yuval Steinitz, aveva dichiarato alla radio dell’esercito che il Paese della Stella di David aveva avuto contatti segreti con Riad. Tutto smentito, ma si sa che è come confermare.
Cosa ci guadagna Trump? La risoluzione della madre di tutte le diatribe e un posto nei libri di storia come re dei mediatori, visto che l’Unione Europea, l’unica che in tesi potrebbe sostituire Washington in quel ruolo, si è chiamata fuori. Ieri infatti a Bruxelles Netanyahu, chiamato da votazioni importanti alla Knesset, ha avuto solo il tempo per scambiarsi gelo e freddezza con l’Alto rappresentate agli affari esteri, Federica Mogherini, mentre il presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker non lo ha visto poiché trattenuto dalla… neve.
Marco Respinti