di Maurizio Milano
Nel ventesimo anniversario della lettera enciclica Popolorum progressio , pubblicata nel 1967 dal beato Papa Paolo VI (1897-1978), Papa san Giovanni Paolo II (1920-2005) promulgò l’enciclica Sollicitudo rei socialis, orientata, come tutta la Dottrina sociale della Chiesa Cattolica, alla promozione di «[…] un autentico sviluppo dell’uomo e della società, che rispetti e promuova la persona umana in tutte le sue dimensioni» (n. 1). Come viene sottolineato in questo documento, la Dottrina sociale della Chiesa è un «corpus» dottrinale che «cerca [….] di guidare gli uomini a rispondere, anche con l’ausilio della riflessione razionale e delle scienze umane, alla loro vocazione di costruttori responsabili della società terrena» (ibidem). Un insegnamento in cui la continuità della sua «[…] ispirazione di fondo, nei suoi “principi di riflessione”, nei suoi “criteri di giudizio”, nelle sue basilari “direttrici di azione” e, soprattutto, nel suo vitale collegamento col Vangelo del Signore» s’intreccia «[…] ai necessari e opportuni adattamenti suggeriti dal variare delle condizioni storiche e dall’incessante fluire degli avvenimenti, in cui si muove la vita degli uomini e delle società» (n. 3). Un aggiornamento reso necessario dalla «[…] continua accelerazione» e dalla «[…] moltiplicazione e complessità dei fenomeni in mezzo ai quali viviamo» (n. 4).
Per san Giovanni Paolo II, l’enciclica del beato Paolo VI è un’«[…] applicazione dell’insegnamento conciliare in materia sociale al problema specifico dello sviluppo e sottosviluppo dei popoli» (n. 7), in cui «[…] la questione sociale ha acquistato dimensione mondiale», con un «crescente influsso di fattori esistenti al di là dei confini regionali e delle frontiere nazionali» (n. 9).
Il Pontefice ricorda che «il vero sviluppo non può consistere nella semplice accumulazione di ricchezza e nella maggiore disponibilità dei beni e servizi, se ciò si ottiene a prezzo del sottosviluppo delle moltitudini, e senza la dovuta considerazione per le dimensioni sociali, culturali e spirituali dell’essere umano» (ibidem) e sottolinea la novità dell’insegnamento del beato Paolo VI secondo cui «lo sviluppo è il nuovo nome della pace» (n. 10). La pace opus iustitiae e opus solidarietatis diviene allora «possibile come frutto di una “giustizia più perfetta tra gli uomini”» (ibidem).
Tra le cause del sottosviluppo san Giovanni Paolo II sottolinea come spesso venga «[…] soffocato il diritto di iniziativa economica […] la cui negazione o limitazione in nome di una pretesa “eguaglianza” di tutti nella società riduce, o addirittura distrugge di fatto lo spirito d’iniziativa, cioè la soggettività creativa del cittadino. Di conseguenza sorge, in questo modo, non tanto una vera eguaglianza, quanto un “livellamento in basso”. Al posto dell’iniziativa creativa nasce la passività, la dipendenza e la sottomissione all’apparato burocratico che, come unico organo “disponente” e “decisionale” ‒ se non addirittura “possessore” ‒ della totalità dei beni e mezzi di produzione, mette tutti in una posizione di dipendenza quasi assoluta, che […] provoca un senso di frustrazione o disperazione e predispone al disimpegno dalla vita nazionale, spingendo molti all’emigrazione e favorendo, altresì, una forma di emigrazione “psicologica”» (III, 15). Proseguendo: «Il sottosviluppo dei nostri giorni non è soltanto economico, ma anche culturale, politico e semplicemente umano, come già rilevava venti anni fa l’Enciclica Populorum Progressio. Sicché, a questo punto, occorre domandarsi se la realtà così triste di oggi non sia, almeno in parte, il risultato di una concezione troppo limitata, ossia prevalentemente economica, dello sviluppo» (ibidem). E ancora, profeticamente, «lo sviluppo o diventa comune a tutte le parti del mondo, o subisce un processo di retrocessione anche nelle zone segnate da un costante progresso» (n. 17).
Nel 1987, tra le cause politiche del sottosviluppo il Santo Padre segnalava «[…] l’esistenza di due blocchi contrapposti» (n. 20): il capitalismo liberista in Occidente e il collettivismo marxista in Oriente ‒ con le rispettive “sfere di influenza” ‒ caratterizzati da una forte contrapposizione non solo ideologica ma anche militare, «causa non ultima del ritardo o del ristagno del Sud» (n. 22). L’implosione dell’Unione Sovietica post-1989 è un segno di grande speranza, che ha consentito un progressivo miglioramento delle condizioni di vita, anche materiali, di interi popoli. Lo stesso divario tra Paesi ricchi e Paesi poveri, denunciato nell’enciclica, sembra avere invertito tendenza, anche se moltissimi popoli rimangono in condizioni di miseria.
Tra i mali dell’epoca, il Pontefice tocca anche il problema demografico. Sottolinea con preoccupazione il calo del tasso di natalità nel Nord del mondo «[…] con ripercussioni sull’invecchiamento della popolazione, incapace perfino di rinnovarsi biologicamente. Fenomeno, questo, in grado di ostacolare di per sé lo sviluppo» (n. 25). Esattamente quello che è accaduto, con l'”inverno demografico” causa strutturale della grave crisi in cui il mondo sviluppato si dibatte da quasi un decennio. Il papa condanna poi la «[…] cosiddetta civiltà dei “consumi” che comporta tanti “scarti” e “rifiuti”»: una «cieca sottomissione al puro consumo», una «forma di materialismo crasso […] mentre le aspirazioni più profonde restano insoddisfatte e forse anche soffocate» (n. 28). Con l’aggravante di «molti che possiedono poco o nulla», «i quali non riescono a realizzare la loro vocazione umana fondamentale, essendo privi dei beni indispensabili» (ibidem).
L’uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio, essere sociale, deve quindi mettere a frutto i talenti ricevuti, lavorando per uno «sviluppo di tutto l’uomo e di tutti gli uomini» (n. 30), in un orizzonte anche materiale ma sempre orientato all’eterno affinché lo sviluppo sia autentico. Non è tanto un problema di “sostenibilità” dello sviluppo – concetto spesso ambiguo e pessimistico portato avanti da agenzie che vedono i figli come una minaccia per un “ambiente”, mitico e pagano; è invece la “qualità” dello sviluppo che rileva, in una «[…] visione ottimistica della storia e del lavoro» (n. 31). Uno sviluppo è autentico, se è fondato sul «rispetto di tutti i diritti: specialmente il diritto alla vita in ogni stadio dell’esistenza; i diritti della famiglia, in quanto comunità sociale di base, o “cellula della società”; la giustizia nei rapporti di lavoro; i diritti inerenti alla vita della comunità politica in quanto tale; i diritti basati sulla vocazione trascendente dell’essere umano, a cominciare dal diritto alla libertà di professare e di praticare il proprio credo religioso» (n. 33). Per ottenere ciò occorre però rimuovere le molte «strutture di peccato», che «[…] si rafforzano, si diffondono e diventano sorgente di altri peccati, condizionando la condotta degli uomini» (n. 36), «vere forme di idolatria: del denaro, dell’ideologia, della classe, della tecnologia» (n. 37). Un appello ad una vera e propria «conversione», ad «impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno perché tutti siamo veramente responsabili di tutti» (n. 38).