Di Marco Respinti da Libero del 17/08/2022
C’era una volta, nei boschi ancestrali del Michigan centrale, un tipo rotondetto e non certo di alta statura. Assomigliava a uno di quegli elfi che si incontrano nella Scozia da cui remotamente la sua schiatta proveniva. Scelse di lasciare le metropoli ai loro falsi miti di progresso. Vestiva sempre giacca, cravatta e panciotto, spesso a fantasie originali. Coltivava sintassi ricercata (e un po’ demodé), la voce gli era stata arrochita dai sigari, un cipollotto gli scandiva il tempo nel taschino e sul suo capo non mancava mai un cappello a tesa larga, a volte ostentava anche un bastone. Amava definirsi «man of letters» e aveva studiato con T.S. Eliot, di cui era divenuto prima discepolo, poi amico. Il suo nome era Russell Kirk (1918-1994), ed è quasi una leggenda. Probabilmente la mente conservatrice più brillante della seconda metà del Novecento nordamericano, secondo Sir Roger Scruton era certamente uno dei migliori interpreti del pensiero antirivoluzionario di Edmund Burke.
Viveva nel suo ridotto volontario di Mecosta, il villaggio che prende il nome di un capo potawatomi, “Grande orso”, nato nei pressi. Lo costruirono i tagliaboschi, fra cui alcuni dei suoi avi, e al censimento di oggi fa poco meno di 390 abitanti. Lì, nella sua abitazione che aveva progettato in stile italianeggiante, Kirk ha messo la firma a una trentina di libri fra storia e scienza politica, romanzi e storie gotiche di fantasmi. Ma al suo arco ha teso altre due frecce puntute: Modern Age, fondato nel 1957, e ancora oggi il miglior quadrimestrale di cultura conservatrice degli Stati Uniti, e The University Bookman, fondato nel 1960.
Periodico di piccolo formato fatto esclusivamente di recensioni, è ancora così anche adesso che esce online e si è arricchito di qualche scritto diverso. Sfidando le più blasonate «review of books», il “Bookman” ha centrato l’appuntamento con la storia, costruendo lentamente una “università” parallela di erudizione e «foglie verdi d’estate» (direbbe Gilbert K. Chesterton) dal momento stesso in cui la libertà di insegnamento (Kirk se ne era occupato nel 1955 con il libro Academic Freedom: An Essay in Definition) iniziava a sgretolarsi e i preparatori della “cancel culture” scorrazzavano contro tutto e contro tutti.
Kirk ne ha sempre curato l’eleganza di scrittura e precisione, il fair play assieme alla fermezza ideale. Dalle sue colonne è passata la crème della cultura conservatrice lungo più di mezzo secolo. Per anni è uscito in abbinamento a National Review, la casa comune giornalistica del conservatorismo americano, il periodico fondato nel 1955 da William F. Buckley Jr., da cui pure sono passate le penne migliori di quel mondo, e in piena salute tutt’oggi. Chi qui scrive ricorda bene come il “Bookman” veniva certosinamente assemblato, in lunghe ore davanti al camino nella biblioteca di Kirk (una ex fabbrica di giocattoli in legno riconvertita), prima che i personal computer e Internet fossero. E che una perla così sia potuta nascere e crescere in maniera tanto casalinga in uno dei posti più remoti è una bella storia che racconta un’America altra rispetto a Wall Street, Hollywood e la politica politicante dove lo schiacciasassi liberal non fa prigionieri.
Probabilmente il “Bookman” è la creatura che Kirk ha più sentito propria e vale la pena di tornare a raccontarne la storia perché ora ha un nuovo direttore, Luke Sheahan. Docente associato nella facoltà di Scienze politiche nella Duquesne University di Pittsburgh, in Pennsylvania, nel 2020 ha pubblicato Why Associations Matter: The Case for First Amendment Pluralism e sta lavorando a Pluralism and Toleration: Difference, Justice, and the Social Group.
Sheahan guida ora il “Bookman” kirkiano perché il suo predecessore, Gerald J. Russello (1971-2021), ci ha lasciato a 50 anni tondi, stroncato da un cancro al cervello all’inizio di novembre. Russello aveva incontrato Kirk da studente a Georgetown e gli aveva subito domandato quello che gli domandavano tutti coloro che il suo wit e la sua America diversa conquistavano: cosa leggere?
Russello faceva l’avvocato nella tentacolare New York, che però era capace di descrivere in modi che solo l’intelletto d’amore e l’amore per la bellezza sanno fare, scoprendone e facendone scoprire volti impensati. Sposato per 23 anni e padre di tre figli, ha esplorato quello che nelle lettere anglosassoni chiamano “Christian Humanism”: Chesterton ed Eliot, Lewis e Tolkien, Evelyn Waugh e Dorothy L. Sayers, fino a Flannery O’Connor. Russello ha approfondito soprattutto Christopher Dawson, lo storico gallese capace di far rivivere davvero il Medioevo. Un giorno a Londra, Christina Scott, figlia di Dawson, mi raccontò della tristezza con cui vedeva il poco trasporto degli editori per le opere del padre. Ora che lei non c’è più, l’eredità dawsoniana la porta avanti suo figlio, Julian Scott.
Qui Russello ci ha messo del proprio, pubblicando nel 1988 un’antologia intelligente e ricca, Christianity and European Culture: Selections from the Work of Christopher Dawson. Indimenticato è pure il suo The Postmodern Imagination of Russell Kirk (2007), così come gli studi su un antesignano del “Christian Humanism”, Orestes Brownson, che tra l’altro nell’Ottocento portò il pensiero dello spagnolo Juan Donoso Cortés nel Nuovo Mondo.
A parte Eliot, Lewis e la Sayers, tutti i nomi di questa pagina sono cattolici, di nascita o conversione. È questa un’altra delle storie che il grande fiume raccoglie. No, il piccolo fiume: il Chippewa River, nelle cui acque Kirk amava pagaiare.