Cosa non convince del bando del Dipartimento delle Pari Opportunità che metterà a disposizione 10 milioni di euro per prevenire e contrastare la violenza di genere
È online il bando del 20 luglio 2017 del Dipartimento delle Pari Opportunità volto al finanziamento dei progetti orientati alla prevenzione e al contrasto alla violenza di genere.
È interessante notare che il bando finanzierà progetti per 10 milioni di euro e permetterà di supportare attività di sensibilizzazioni rispetto a sei aree d’intervento: donne migranti e rifugiate, inserimento lavorativo delle donne vittime di violenza, supporto alle donne detenute che hanno subito violenza, programmi di trattamento di uomini maltrattanti, supporto e protezione delle donne sottoposte anche a violenza “economica” e progetti di sensibilizzazione, prevenzione e educazione.
Esaminando attentamente il bando se, da una parte, emerge distintamente l’ideologia che in esso è sottesa e di cui in più occasioni abbiamo fatto stato (confronta per una più estesa trattazione delle strategie politiche dei comitati pari opportunità e delle loro ricadute sociali: G. Cerrelli, M. Invernizzi, La famiglia in Italia dal divorzio al gender, Sugarco, 2017, pp. 235 e ss.), dall’altra suscita una fondata preoccupazione e un vivo sconcerto la specificazione del contenuto, che è dato nel bando, di due aree di intervento e precisamente quella prevista dall’art. 2 lett. C: “Programmi di trattamento degli uomini maltrattanti” e finanziata con un milione di euro e quella prevista dall’art. 2, lett. F: “Progetti di animazione, comunicazione e sensibilizzazione territoriale rivolti alla prevenzione della violenza di genere mediante la realizzazione di campagne di comunicazione, educazione, attività culturali, artistiche e sportive, per promuovere i cambiamenti nei comportamenti socio-culturali, al fine di eliminare pregiudizi, costumi, tradizioni e qualsiasi altra pratica basata su modelli stereotipati dei ruoli delle donne e degli uomini”, finanziata con duemilioninovecento euro.
La linea d’intervento prevista dall’art. 2 lett. C prevede dei “Programmi di trattamento per gli uomini maltrattanti”. Tale previsione è inquietante, non perché non esistano uomini che maltrattino le donne e che meritano perciò tutto il nostro biasimo, ma per il fatto che tale linea d’intervento può aprire scenari veramente preoccupanti e allarmanti.
Vediamone alcuni:
a) Chi deciderà se un uomo è veramente maltrattante? Nel clima di sospetto che nella nostra società è stato artatamente instaurato contro il “maschio”, che viene considerato ormai come un essere violento e come un potenziale omicida, qualsiasi denuncia, anche se infondata, potrebbe suscitare a suo carico l’inizio di un percorso rieducativo e cautelativo che produrrebbe esiti paradossali e nefasti per la vita del malcapitato;
b) Perché sono previsti programmi di trattamento solo per gli uomini maltrattanti e non anche per donne maltrattanti? Nella mia professione di avvocato non poche volte ho preso atto di vere e proprie violenze fisiche e morali perpetrate da donne contro i loro partner di sesso maschile, che hanno cagionato in essi la loro distruzione morale e civile;
c) Cosa s’intende per “programma di trattamento degli uomini maltrattanti”? Tale locuzione è veramente inquietante, se si pensa che questo trattamento di rieducazione dovrà essere attuato principalmente da quelle “associazioni, organizzazioni e cooperative sociali operanti nel settore del sostegno e dell’aiuto alle donne vittime di violenza, che abbiano maturato esperienze e competenze specifiche in materia di violenza contro le donne, che utilizzino una metodologia di accoglienza basata sulla relazione tra donne, con personale formato specificatamente sulla violenza di genere.”
Questo trattamento dovrà portare a una presa di coscienza e cambiamento degli uomini autori di violenza o a rischio di comportamenti violenti. Tutto ciò come sarà attuato? Con quali mezzi? Con quali garanzie per l’uomo che è valutato da queste associazioni come un essere da combattere?
d) Viene da chiedersi: i suddetti programmi di trattamento risultano conformi al dettato costituzionale? L’art. 32, 2 c. afferma, infatti, che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. Non è che per caso si prospetta all’orizzonte un ritorno ai totalitarismi di passata memoria?
Se la linea d’intervento prevista dall’art. 2 lett. C del bando ha molti aspetti che destano una seria preoccupazione, la linea d’intervento prevista dall’art. 2 lett. F ha caratteristiche veramente raccapriccianti.
Tale linea d’intervento, infatti, prevede un’azione – da parte di enti pubblici territoriali e delle solite associazioni operanti nel settore del sostegno e dell’aiuto alle donne vittime di violenza – di promozione a favore dei “cambiamenti nei comportamenti socio-culturali, al fine di eliminare pregiudizi, costumi, tradizioni e qualsiasi altra pratica basata su modelli stereotipati dei ruoli delle donne e degli uomini”.
Come si può notare si è di fronte a una vera e propria rieducazione del popolo italiano, che deve essere inquadrata nell’ambito di quel percorso iniziato, fin dagli anni ’60 del secolo scorso, dal pensiero femminista che ha incontrato l’ideologia del gender.
Il femminismo, nel corso degli anni, ha imparato a servirsi del diritto che è divenuto lo strumento d’intervento per mutare l’ordine delle relazioni di genere e sancire l‘autodeterminazione delle donne.
La violenza di genere diviene, così, una costruzione sociale, che è agitata per alimentare odio e paura. Pur se è vero che alcuni uomini sono violenti, tuttavia, questi sono soltanto un’eccezione, ma tali casi di violenza – che sono in ogni caso da riprovare, perché anche un solo caso di violenza contro una donna è insopportabile ed è già troppo – servono al movimento femminista per agitare la violenza di genere come categoria, utilizzandola strategicamente per propiziare la decostruzione socio culturale della nazione.
Esaminando, difatti, l’ultima Relazione disponibile che il Ministero dell’Interno ha trasmesso al Parlamento sulle attività delle forze di Polizia sullo stato dell’ordine e della sicurezza pubblica (consultabile sul sito del Ministero dell’Interno) vi è un intero capitolo dedicato alla cosiddetta “violenza di genere” e al cosiddetto “femminicidio”.
Scrutando i dati emerge sorprendentemente che la maggior parte delle vittime – per qualsiasi genere di reato – è di sesso maschile: 58,42% contro 41,58%.
Tale tendenza è confermata anche per i cosiddetti reati di genere; anche in questo caso è sorprendente notare che il numero di vittime maschili sia maggiore del numero di vittime femminili: 50,21% contro 49,79%.
Di cosa allora stiamo parlando?
E così se anche il termine femminicidio non piace a nessuno è, però, riconosciuto e utilizzato per il suo impatto semantico. Anche la violenza di genere come costruzione è un dispositivo che è utilizzato come arma per annichilire qualsiasi forma di dissenso a favore delle politiche di genere.
Pietra miliare di questa strategia è senz’altro la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza di genere nei confronti delle donne e la violenza domestica, sottoscritta l’11 maggio 2011 a Istanbul, da 24 Stati europei e ratificata dal Parlamento Italiano il 19 giugno 2013.
Sulla spinta di tale Convenzione l’Italia ha approvato il disegno di legge 14 agosto 2013, n. 93, recante Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province, convertito in legge 15 ottobre 2013, n. 119, ribattezzato dai mass-media e altresì da numerosi esponenti governativi e parlamentari “legge contro il femminicidio”.
Indicativa è la definizione che dà il Corriere della Sera (vedi edizione del 15 luglio u.s.) al termine “femminicidio”, presentandolo come un “neologismo riferito ai casi di omicidio doloso o preterintenzionale in cui una donna viene uccisa da un uomo per motivi basati sul genere”.
Ci vogliono far credere, guarda caso, che gli omicidi commessi da un uomo nei confronti di una donna siano perpetrati con l’intento di uccidere una donna in quanto donna, ma un osservatore attento della realtà comprende che non è così e che nella maggior parte dei casi la violenza viene innescata dalla fine di un rapporto: divorzio, separazione, fine del fidanzamento o della convivenza.
È necessario, pertanto, riflettere su quanto la fluidità dei rapporti interpersonali incida sulle cause di violenza di genere. Con il pretesto, infatti, di esercitare il diritto all’autodeterminazione, che è divenuto un assoluto etico e giuridico, si mette fine ai rapporti familiari ad nutum, per la sola volontà di una parte, senza che questa riceva alcuna seria sanzione giuridica.
Senza giustificare in alcun modo forme di aggressività perpetrate nei confronti del proprio partner, sarebbe utile verificare, invece, le vere cause della violenza sul proprio coniuge. È forse il caso di analizzare se la violenza, chiamata sovente a sproposito “violenza di genere”, faccia breccia nella mente di soggetti deboli caratterialmente, che vedendosi impotenti di fronte alla decisione meramente potestativa e unilaterale del congiunto di voler scomporre il nucleo familiare e senza avere, tra l’altro, alcuna forma seria di tutela dell’integrità del rapporto familiare, prevista dall’ordinamento giuridico, pensano – sbagliando – di farsi giustizia da sé.
Sarebbe, dunque, opportuno, invece di propiziare artate “lotte di classe tra i sessi”, prevedere delle terapie sociali che contrastino il processo di ridefinizione della famiglia che in modo sempre più aggressivo rende più fragili e più fluidi i rapporti interpersonali e familiari, con un inevitabile riverbero negativo sulla società che diventa ogn’ora più debole e instabile.
Giancarlo Cerrelli
Da “Tempi” del 29 luglio 2017. Foto da articolo