Da “La nuova Bussola quotidiana” del 7 febbraio 2017. Foto da Fox2now
Volano stracci negli Stati Uniti e il tema, delicatissimo, è quello dell’immigrazione. Un giudice ha congelato la decisione del presidente Donald J. Trump di chiudere temporaneamente le frontiere e un tribunale d’appello ha confermato. Per il momento, almeno su questo tema, Trump è al tappeto.
Accogliendo la richiesta delle avvocature generali dello Stato di Washington e dello Stato del Minnesota, venerdì 3 febbraio il giudice federale di Seattle James L. Robart del Distretto occidentale dello Stato di Washington ha decretato la sospensione dell’ordine esecutivo con cui il 27 gennaio Trump ha temporaneamente chiuso le frontiere americane. La decisione blocca il provvedimento per intero, ma l’attenzione si concentra sui famosi sette Paesi che hanno scatenato le ire della piazza e le condanne di mezzo mondo: Siria, Sudan, Yemen, Iraq, Iran, Libia e Somalia. Il ministero della Giustizia ha così fatto subito ricorso alla Nona corte distrettuale d’Appello di San Francisco invocando una procedura d’urgenza, respinta però domenica 5. Ora la Corte deve pronunciarsi nel merito.
La buona notizia è che gli Stati Uniti stanno bene. Nonostante ciò che gridano gli sfasciavetrine, il Paese non è diventato una dittatura. Le istituzioni funzionano, la giustizia è celere, pesi e contrappesi sono ben bilanciati, il diritto regna sovrano. La notizia cattiva è che il giudice Robart ha sbagliato mestiere. Lo spiega bene l’avvocato Robert Barnes su Law Newz (clicca qui), una costola del network di Dan Abrams, che è una specie di Un giorno in pretura vivente e formato jumbo.
Punto primo: nell’ordine esecutivo Trump afferma di avere chiuso le frontiere per impedire l’infiltrazione di terroristi stranieri negli Stati Uniti per il tempo necessario ad adeguare le misure di sicurezza. Può avere ragione, può avere torto, ma il punto è che l’ordine esecutivo questo dice e non altro. Punto secondo: Robart sostiene di avere agito come ha agito perché gli Stati colpiti «[…] hanno dimostrato di patire una ferita immediata e irreparabile dalla firma e dall’implementazione dell’ordine esecutivo» (clicca qui). Ora, al giudice Robart non compete stabilire se, nel merito politico (e culturale) di un suo provvedimento legislativo, il presidente Trump abbia ragione o meno; compete solo verificare se sussista o meno l’interesse legittimo del governo degli Stati Uniti a garantire la sicurezza nazionale. Ma, agendo come ha agito con la motivazione che ha addotto, il giudice Robart mette in discussione proprio tale questione.
Sempre venerdì, proprio mentre Robart prendeva questa decisione, un altro giudice federale, Nathaniel M. Gorton, del Distretto del Massachusetts, ha rigettato analoghe pretese d’illegittimità del provvedimento presidenziale (clicca qui). Citando la Corte Suprema federale nel caso Heller v. Doe del 1993, il giudice Gorton ricorda che il giudizio di legittimità su un provvedimento legislativo deve appurare il «fondamento razionale» dello stesso e che il «fondamento razionale» dev’essere in relazione equa a uno «[…] scopo pubblico legittimo»; non è, insomma, una «[…] licenza concessa ai tribunali per giudicare la saggezza, l’equità o la logica delle scelte legislative».
Trump ha cioè pieno diritto di chiudere le frontiere nazionali, e questo va detto e ribadito giacché dalle contestazioni della piazza, ma anche dai commenti di cronisti, inviati e opinionisti, pare il contrario: anzi, sembra persino che Trump governi al di fuori della legge, sostanzialmente perché sarebbe un presidente illegittimo andato al potere con quello che sostanzialmente è un furto elettorale.
È vero invece l’opposto. Trump si muove osservando la legge al dettaglio, e questo è un punto notevole e qualificante. Si dice che l’ispiratore, magari persino l’estensore materiale dell’ordine di chiusura delle frontiere sia il suo primo consigliere, Steven K. Bannon. Se è davvero stato Bannon, tanto di cappello a Bannon che ha fatto tutto in ossequio al diritto e non all’arbitrio. Non lo si ripeterà mai abbastanza, ma la lista dei sette Paesi bloccati per 90 giorni (che non compare verbatim nel famoso ordine esecutivo) è quella stilata dalla legge sui visti del 2015 in piena era Obama. Stante che il diritto di chiudere le frontiere a quei Paesi o ad altri appartiene al presidente (qualunque presidente) da anni, e che vi sono precedenti antichissimi, il fatto che i famosi sette Paesi siano stati scelti sulla base di un preciso precedente normativo testimonia l’intenzione dichiarata di agire evitando abusi nel solco di un criterio già individuato dalle istituzione americane. Immaginiamo cosa sarebbe successo se Trump avesse stilato una lista di Paesi “celo, manca”…
Si obietta che però così vengono graziati indebitamente i veri Paesi problematici, per prima l’Arabia Saudita. Detto che i sette Paesi colpiti non sono esattamente Shangri-La, l’argomento è vero. Ma su quale base giuridica si sarebbe potuta chiudere la porta in faccia a Riad? Certo, la legge americana dà al presidente il potere di escludere dall’ingresso negli Stati Uniti qualsiasi Paese, ma, appunto, cosa sarebbe successo se la “cattiva” Amministrazione Trump avesse fatto nomi di Paesi a piacere?
Quanto all’argomento secondo cui i sauditi sono stati risparmiati perché, possedendo gran parte del debito statunitense, tengono Washington per la gola e per di più ne lucrano milioni di dollari in forniture di armi, va detto che in sé anche questo fatto è vero, ma che così è perché, non l’Amministrazione Trump, ma l’Amministrazione Obama ha legato le mani al Paese (e poi c’è l’affaire sporchissimo dello Yemen, dove combattere Al-Qaeda significa purtroppo finire per chiudere un occhio su Riad).
Alla fine di tutto resta opportuno e persino doveroso domandarsi se la chiusura delle frontiere degli Stati Uniti serva sul serio a combattere il terrorismo, visti anche i danni che il provvedimento reca a molti stranieri che con il terrorismo proprio non c’entrano. Dubbi, per usare un eufemismo, ce ne sono molti. Il Cato Institute di Washington ne ha esposti alcuni in una ricerca preventiva risalente addirittura al settembre scorso e altri più di recente. Ma tutto questo è e rimane un altro discorso. Politicamente e culturalmente cogente, ma diametralmente opposto alla legittimità del provvedimento Trump.
Marco Respinti