Un esempio di come la ricostruzione storica debba tener conto della complessità della realtà
di Marco Drufuca
Dopo aver trattato della nascita dell’innografia in Oriente e in Occidente, il ciclo di articoli sulla musica sacra prosegue affrontando la formazione del repertorio Gregoriano, che per più di un millennio sarebbe stato il canto liturgico ufficiale della Chiesa Cattolica.
Lo staus quo
A differenza di oggi, nei primi otto secoli di cristianesimo nella Chiesa non vi era alcuna uniformità liturgica, ma a ciascuno dei principali centri della vita politica e religiosa corrispondeva una tradizione cultuale propria, pur restando innegabile un’origine comune e una stretta parentela tra i vari riti. Una simile varietà può forse essere ascritta all’impossibilità pratica di imporre un modello unico universalmente valido nel contesto storico del tempo, ma va anche notato come l’omogeneità liturgica non fosse affatto avvertita come una necessità. Emblematica in tal senso è la risposta di Gregorio Magno (540 ca.-605) a una domanda di Agostino di Canterbury (534-604). Impegnato nella sua missione in Gran Bretagna, Agostino chiese al santo Papa quale tradizione avrebbe dovuto essere presa come riferimento per la liturgia della rinascente Chiesa Inglese. Stando a Beda il Venerabile (672 ca. – 735), Gregorio avrebbe così risposto: “se hai trovato qualcosa che possa piacere a Dio onnipotente, sia essa nella Chiesa di Roma, o in quella Gallicana, o in qualunque altra, sceglila con cura, e ciò che avrai tratto dalle varie chiese diffondilo nella Chiesa degli Angli, giovane nella fede. Infatti non bisogna amare le cose per i luoghi da cui provengono, ma al contrario bisogna amare i luoghi per le buone cose che vi si trovano. Dunque da ciascuna delle chiese, scegli tutte quelle cose che sono pie, religiose, giuste, e raccogliendole come in un fascio deponile nelle menti e nelle consuetudini degli Angli”
In questo vasto e articolato panorama, si affermarono nel tempo alcune principali “famiglie liturgiche” territorialmente definite. Di queste, cinque sono quelle meglio documentate e sulle quali si è concentrata la ricerca storica. Si tratta innanzitutto della liturgia di Roma, strettamente legata alle celebrazioni papali; quella di Milano, comunemente chiamata “Ambrosiana” in onore del grande patrono milanese; a tale liturgia se ne affianca poi una strettamente imparentata ma non identica con centro a Benevento; va poi citata la tradizione Gallicana, la cui diffusione sarebbe venuta pressoché a coincidere con l’estensione del regno dei Franchi; infine quella Iberica, che, sopravvivendo anche durante la dominazione araba, si sarebbe guadagnata l’appellativo di “Mozarabica”.
Davanti a una situazione così variegata, alcune domande nascono spontanee: come si arrivò all’uniformità liturgica cui siamo abituati oggi, e, per restare in tema, all’adozione di un unico repertorio nel canto liturgico? Soprattutto, a quale tradizione corrisponde il canto che siamo abituati a chiamare “Gregoriano”?
La “leggenda Gregoriana”
Partendo dalla seconda domanda, per lungo tempo si è attribuita la paternità tanto del canto gregoriano quanto dell’ordinamento liturgico della chiesa di Roma a Gregorio Magno. Tuttavia, una simile attribuzione compare in documenti di molto posteriori alla vita dell’ultimo dei quattro Padri della Chiesa Latina: solo alla fine dell’VIII secolo, vale a dire più di centocinquant’anni dopo la morte di Gregorio, iniziarono a diffondersi antifonari la cui paternità veniva ascritta a Gregorio Magno, e il principale documento cui si rifà la “tradizione gregoriana” è la Vita Gregorii di Giovanni Diacono, scritta quasi tre secoli dopo Gregorio. In essa Giovanni attribuisce a Gregorio la compilazione di un “antifonario-centone”, nonché la fondazione della schola cantorum, l’istituzione papale mediante la quale venivano educati i cantori della cappella pontificia. Sebbene non sia affatto inverosimile che Gregorio si fosse occupato di questioni liturgiche, egli non può essere considerato come l’unico autore o redattore dell’ordinamento liturgico che sarebbe giunto fino all’VIII secolo: l’Ordo Romanus XIX, di fine VII secolo,lo nomina per penultimo in una lista di otto Papi che avrebbero contribuito alla redazione dell’ordinamento liturgico Romano insieme a tre abati. Inoltre, va tenuto presente che ai tempi di Gregorio Magno non vi era alcun tipo di notazione musicale utilizzato negli antifonari e nei libri liturgici: dunque, qualsiasi raccolta di testi Gregorio abbia editato non conteneva indicazioni melodiche, che rimanevano affidate alla tradizione orale. La nozione stessa di compositore è sviante: piuttosto che alla creazione del singolo, la musica del tempo era affidata alla tradizione, alla quale il cantore attingeva con un certo grado di libertà.
Proprio il contesto orale della civiltà dell’epoca porta a sottolineare l’importanza della nascita di una schola cantorum al servizio dei pontefici. Sebbene la sua origine sia ancora incerta e dibattuta, tale istituzione ebbe grande rilievo sia a livello sociale che nella storia del canto liturgico. Nata forse a partire da un orfanotrofio, la schola era una grande occasione per fanciulli di basso rango sociale per ricevere un’accurata educazione e per accedere a importanti posizioni all’interno della gerarchia romana ed ecclesiastica; soprattutto, con essa nasceva un’istituzione autorevole per la preservazione e la trasmissione del canto Romano. L’importanza della schola sarebbe poi emersa con tutta chiarezza durante le vicende dell’VIII secolo di cui tratteremo a breve.
La riforma Carolingia
Dunque, il canto oggi conosciuto come Gregoriano non è attribuibile a Gregorio Magno. Rimangono quindi aperte le domande poste in precedenza: di tutti i canti della Chiesa alto-medievale, quale rappresenta il repertorio “Gregoriano”? E quando esso divenne patrimonio comune di tutta le chiese occidentali?
La risposta alla seconda domanda è, in apparenza, la più semplice. Accertato che l’uniformità liturgica non era al centro delle preoccupazioni della Chiesa Romana, i documenti mostrano chiaramente che essa fu perseguita soprattutto dalla dinastia Carolingia, ben consapevole che l’unità del nascente impero sarebbe stata garantita proprio dalla comune religione cristiano-cattolica, ivi compreso il comune culto. Pipino il Breve (714-768) e in seguito Carlo Magno (742-814), che fece grande affidamento sulla consulenza di Alcuino di York (740-804), spinsero perché gli usi liturgici delle chiese del loro regno si conformassero a quelli di Roma, canto compreso. Per compiere tale sforzo fu naturale rivolgersi proprio alla schola cantorum: su richiesta di Remigio, fratello di Pipino, Papa Paolo I mandò a Rouen Simeone, secondo dei quattro parafonisti della schola, e quando questi dovette essere richiamato a Roma per ricoprire la carica di primicerius, i monaci che non erano ancora riusciti a imparare adeguatamente il canto romano furono mandati essi stessi nella città pontificia per formarsi all’interno dell’istituzione della schola cantorum. Più ancora di Rouen tuttavia fu Metz ad imporsi come principale centro di diffusione del canto liturgico, grazie soprattutto all’opera di San Crodegango (712 ca. – 766)
Così, alle nostre domande sembra essere facilmente data risposta: il canto oggi conosciuto come Gregoriano era anticamente quello della liturgia romana, affermatosi gradualmente in tutta la Cristianità grazie all’opera unificatrice della dinastia Carolingia.
Il mistero del canto Gregoriano
Tuttavia, a seguito del grande lavoro di studio e pubblicazione degli antichi manoscritti da parte dei monaci di Solesmes, si è fatta una scoperta che ha messo profondamente in crisi tale narrazione. Infatti, curando le edizioni di Paléografie Musicale, Dom André Mocquereau venne a contatto con alcuni manoscritti notati, i più antichi risalenti all’XI secolo. Tutti questi reperti provengono da Roma e, pur condividendo testi e ordinamento liturgico con la liturgia gregoriana, presentano melodie che, simili nei disegni melodici fondamentali, erano sensibilmente diverse quanto a dettagli “di superficie” rispetto a quelle gregoriane. Inizialmente considerati corruzioni successive del canto Gregoriano originario, ci si rese conto in seguito che tali manoscritti si rifacevano a una tradizione ben più antica, mancando in essi alcune feste introdotte a partire dal IX secolo. Si tentò allora di spiegare l’esistenza di due repertori distinti per lo stesso ordinamento liturgico ipotizzando l’esistenza di due tradizioni canore nella stessa città di Roma, una più antica e una riformata. Tuttavia, tale spiegazione non teneva conto di un’ulteriore dato: non si hanno tracce di canto Gregoriano a Roma prima del XIII secolo, mentre in area franca i primi manoscritti notati risalgono al IX secolo. La conclusione a cui giunse la maggior parte degli studiosi fu dunque quella che fino al XIII secolo a Roma non era in uso il canto “gregoriano”, ma bensì quella tradizione testimoniata dai manoscritti romani rinvenuti da Dom Mocquereau, e che venne battezzata “canto Romano antico”.
Tale persistente differenza tra il canto adottato nei territori del Sacro Romano Impero e quello di Roma trova eco anche nelle cronache dell’epoca, nelle quali è possibile anche ravvisare una certa animosità tra le due popolazioni. Da una parte, il già citato Giovanni Diacono, fautore della “leggenda gregoriana”, sostiene che già ai tempi di Gregorio il canto di Roma sarebbe stato diffuso per tutto il continente, ma la frivolezza (levitas) e la bestialità (feritas) dei Franchi avrebbe loro impedito di conservare la tradizione ricevuta. Così Carlo Magno, resosi conto della disomogeneità del canto nella Chiesa d’Occidente, avrebbe mandato due monaci a Roma perché fossero istruiti presso la schola, e questi, tornati in Gallia e stabilendosi a Metz, avrebbero poi nuovamente corretto il canto nel Regno. Tuttavia, dopo la morte di primi monaci il canto gallicano sarebbe tornato a distaccarsi da quello insegnato a Metz, e il Re avrebbe dovuto nuovamente chiedere l’aiuto di Roma, pregando papa Adriano di mandare in Gallia due cantori.
Se Giovanni Diacono, romano di nascita, attribuisce le difficoltà nell’uniformazione del canto alla levitas e alla feritas dei Franchi, Notkero il Balbuziente, di ascendenza germanica, attribuisce la responsabilità ai Romani: nelle sue Gesta Karoli Magni imperatoris leggiamo infatti che il Papa avrebbe mandato inizialmente dodici cantori in Gallia perché il canto romano fosse insegnato, ma questi, volendo preservare l’esclusivo prestigio di Roma, si sarebbero messi d’accordo per insegnare ciascuno un modo diverso per cantare, sabotando in tal modo il piano di uniformazione promosso da Carlo Magno. Seppure appartenenti a due “fazioni” diverse e contrapposte, Giovanni e Notkero concordano entrambi nel constatare come anche dopo la riforma Carolingia Roma e l’Impero avessero due canti differenti.
In tal modo, tuttavia, crolla il disegno che avevamo tracciato in precedenza, e si aprono svariate domande: se il canto Gregoriano non proviene da Roma, allora da dove origina? Cosa è avvenuto realmente durante il tentativo carolingio di uniformazione della liturgia gallicana a quella Romana?
Avendo escluso l’ipotesi della creazione di due diversi repertori in seno alla stessa Roma, gli studiosi si sono trovati a convergere sull’idea che il canto Gregoriano dovesse essere il risultato del fallito tentativo di esportazione del canto Romano in ambito Gallicano. A sua volta, questa affermazione apre più domande di quelle che risolve: se è così, in che rapporto stanno il repertorio Gregoriano e quello cosiddetto “Romano antico”? C’è chi sostiene che il Gregoriano sia una sorta di adattamento del canto Romano ai canoni estetici gallicani; chi pensa che il Gregoriano, notato a partire dal IX secolo, sia in realtà una cristallizzazione fedele di ciò che i Franchi ebbero modo di sentire dai cantori romani nell’VIII secolo, mentre il repertorio “romano antico” sarebbe la fissazione più tarda dello stesso repertorio che a Roma si sarebbe ulteriormente sviluppato in due secoli di tradizione orale; chi ancora sostiene che, dopo un primo tentativo di incorporare nella liturgia gallicana il canto Romano, i chierici di Carlo Magno spazientiti avrebbero rinunciato, optando piuttosto per usare melodie proprie del canto gallicano cui erano già avvezzi e applicandole ai nuovi testi provenienti da Roma: il canto Gregoriano sarebbe così in realtà di matrice principalmente gallicana, e come tale avrebbe in seguito influenzato lo stesso canto Romano.
Quale dei due canti rappresenta dunque nel migliore dei modi la tradizione più antica di Roma? Vi è un rapporto di dipendenza dell’uno dall’altro? Di che natura? Oppure si tratta piuttosto di due sviluppi indipendenti che partono da una radice comune? In ultima istanza: cos’è il Canto Gregoriano?
Nel tentativo di ipotizzare una risposta, si aprono poi svariate altre questioni: come funzionava la memorizzazione e la trasmissione delle melodie? Venivano memorizzate ciascuna individualmente, o piuttosto riconducendole a formule prestabilite con le quali era di volta in volta possibile “ricostruire” l’andamento della melodia? Ma se fosse così, si deve pensare che le melodie fossero fisse e definite, identiche a se stesse di anno in anno oppure che il cantore avesse una certa libertà nella scelta delle formule e delle ornamentazioni?
Ulteriori questioni sorgono davanti all’avvento della scrittura musicale. La prima forma di notazione, attestata a partire dal IX secolo, è incapace di indicare intervalli precisi, può solo fornire indicazioni di massima circa l’andamento generale della melodia. Si trattava dunque di una scrittura utile solo a chi già conosceva la melodia da cantare, con la funzione di aiutare a richiamare alla memoria la linea melodica; inoltre, i primi manoscritti recano neumi musicali solo su alcuni canti, mentre la maggior parte del testo cantato rimane priva di indicazioni circa la musica. Come interpretare tutto ciò? La scrittura indica il repertorio che veniva effettivamente cantato, o il tentativo di preservare quello che rischiava di andare perduto con la soppressione dei vari canti non-gregoriani? Quanto era vincolante per il cantore? La sostanziale omogeneità delle melodie notate a partire dal IX secolo nei vari manoscritti corrisponde effettivamente a una uniformità nella pratica del canto, dunque nell’esecuzione delle stesse melodie?
Molte altre domande potrebbero essere poste, domande con cui due secoli di studi si sono scontrati senza ancora trovare una risposta capace di suscitare un consenso generalizzato. E’ possibile che delle varie teorie avanzate più di una possa corrispondere a parziale verità: una cultura orale come quella dell’epoca è certamente predisposta a mutabilità e a contaminazioni con tradizioni limitrofe; i confini tra un uso e l’altro potrebbero essere molto più elastici di quanto i moderni metodi di ricerca storica riescano ad ammettere. Se vi è una certezza in tutto questo, è che dopo secoli di ricerche la nascita di quel repertorio che avrebbe accompagnato la liturgia delle chiese di tradizione latina per più di un millennio rimane ancora un mistero.
Sabato, 16 novembre 2024