« Il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la Pasqua, i suoi discepoli gli dissero: “Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?”. Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: “Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo. Là dove entrerà, dite al padrone di casa: “Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”. Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi”. I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua. Venuta la sera, egli arrivò con i Dodici » (Mc 14,12-17); « Era la Parasceve della Pasqua, verso mezzogiorno. Pilato disse ai Giudei: “Ecco il vostro re!”. Ma quelli gridarono: “Via! Via! Crocifiggilo!”. Disse loro Pilato: “Metterò in croce il vostro re?”. Risposero i capi dei sacerdoti: “Non abbiamo altro re che Cesare”. Allora lo consegnò loro perché fosse crocifisso » (Gv 19,14-16)
Se prendiamo in mano i quattro Vangeli e li sfogliamo, incontriamo diversi racconti collegati spesso tra di loro con formule stereotipe. C’è però in tutti e quattro un racconto che ha una evidente unità di composizione: il racconto della passione. È il cuore del messaggio evangelico. Ma la nostra fede non è fondata sulla resurrezione? Certamente! Ma l’evento meraviglioso, stupefacente, quasi incredibile, è il fatto che il Figlio di Dio, che è Dio stesso, sia morto in quel modo. Se è Dio che è morto così, questo deve avere un significato profondo e questo significato profondo deve essere il senso della vita stessa di Dio, di tutta quanta la storia e della mia stessa vita. Che questa morte l’abbia patita volontariamente, non come una “sconfitta” (può mai essere sconfitto Dio?), questo è l’evento meraviglioso che deve stupirci, sconvolgerci e trascinarci in un nuovo tipo di vita. Se è Dio che è morto così, allora che la morte non abbia trionfato su di lui e che sia vittoriosamente risorto appare come la cosa più ovvia e scontata del mondo. Se ha compiuto questo gesto per la nostra salvezza, per la mia salvezza – perché un atto del genere non può essere che un atto di amore e l’amore è sempre qualcosa di personale – allora la mia risposta a questo atto di amore è il gesto fondamentale e decisivo di tutta la mia vita. Aderire nella fede e con la fede al Signore Gesù – e a Gesù crocifisso – è il senso ultimo e definitivo di tutto quanto il mio vivere. A Pasqua si leggono per intero questi racconti. Il venerdì santo il racconto della passione di Giovanni e la Domenica delle palme, quest’anno (anno A), il racconto dell’evangelista Matteo. Tutto ciò è molto bello, ma comporta un rischio: che il racconto della passione, che è molto lungo e articolato, scivoli via senza troppa riflessione e contemplazione. Per questo vi propongo come preparazione alla Pasqua una contemplazione più dettagliata degli eventi della passione di Gesù che incominceremo oggi con il racconto dell’ultima Cena. Dovendo contemplare l’ultima Cena di Gesù con i suoi apostoli ci troviamo davanti ad un problema di date. Marco, che Matteo e Luca seguono nella sostanza, offre una datazione precisa: « Il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la Pasqua, i suoi discepoli gli dissero: “Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?” […]. Venuta la sera, egli arrivò con i Dodici » (Mc 14,12.17). La sera del primo giorno degli Azzimi è la vigilia della Pasqua e – secondo la cronologia dei sinottici – è un giovedì. Il problema di questa cronologia è che il processo e la crocifissione di Gesù sarebbero avvenuti proprio nella festa di Pasqua che, in quell’anno, cadeva di venerdì. Questo contrasta tra l’altro proprio con una notizia riportata dallo stesso Marco, il quale racconta che due giorni prima della festa degli Azzimi i sommi sacerdoti e gli scribi cercavano il modo di mettere le mani su Gesù per ucciderlo, ma « Non durante la festa, perché non vi sia una rivolta del popolo » (Mc 14,1). Per Giovanni le cose stanno in tutt’altro modo. Innanzitutto mette molto impegno nel non presentare l’ultima cena come una cena pasquale. Le autorità giudaiche che portano Gesù in tribunale evitano di entrare nel pretorio per non contaminarsi e poter così mangiare la Pasqua (cfr. Gv 18,28). Processo e crocifissione avvengono nel giorno prima della Pasqua (nella «Parasceve») non nella Pasqua stessa, che quell’anno avviene di sabato (dunque dalla sera del venerdì fino alla sera del sabato). Sia per i sinottici che per Giovanni dunque l’ultima cena si svolgerebbe il giovedì sera. Per i sinottici nel momento in cui nel tempio vengono immolati gli agnelli pasquali, mentre per Giovanni quello è proprio il momento della morte di Gesù in croce. Il problema è antico e gli esegeti e i teologi hanno sempre cercato di risolverlo facendo appello a calendari differenti seguiti contemporaneamente da diversi gruppi di persone (cfr. Giuseppe Ricciotti, Vita di Gesù Cristo, Oscar Mondadori, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1997, pp. 607-613 [§§ 536-540]). Il tentativo più famoso è stato quello di Annie Jaubert (La date de la cène. Calendrier biblique et liturgie chrétienne, Gabalda, Paris 1957) che avanzò l’ipotesi che Gesù e i suoi discepoli, a differenza dei sacerdoti, degli scribi e dei farisei, seguissero il calendario diffuso a Qumran. La cena sarebbe avvenuta di martedì sera e la crocifissione il venerdì mattina. L’ipotesi della Jaubert è possibile, ma non ha convinto dalla maggioranza degli studiosi. È molto più probabile che Gesù semplicemente abbia celebrato la “sua” cena pasquale la sera del giovedì. La cronologia giusta sarebbe dunque quella di Giovanni. È l’opinione di John Paul Meier (Un ebreo marginale, vol. 1, trad. it., Queriniana, Brescia 2001, pp. 377-401) seguita sostanzialmente da Joseph Ratzinger nel suo libro su Gesù di Nazaret. La morte di Gesù avviene proprio nell’ora in cui nel tempio vengono immolati gli agnelli pasquali. Gesù fa uso del suo potere sovrano ed anticipa la cena rispetto al calendario ufficiale. Forse appoggiandosi sulla sua autorità i sinottici la chiamano esplicitamente cena pasquale, mentre Giovanni si astiene dal farlo. Molto probabilmente non avvenne quella sera la manducazione dell’agnello, perché l’agnello era appunto Gesù stesso. La preghiera di benedizione e di ringraziamento pronunciata da Gesù sul pane e sul calice del vino stanno al centro. Comprendiamo così perché il comando di Gesù « fate questo in memoria di me » (Lc 22,19; 1Cor 11,24) si è sempre ristretto nella tradizione liturgica a questa preghiera, che è divenuta l’anafora, la preghiera eucaristica, il canone nelle diverse tradizioni liturgiche. Attorno a questa preghiera, che è un gesto, un’azione, di Gesù con un valore chiaramente sacramentale, si è andata costruendo tutta quanta la liturgia della Chiesa. « La Chiesa, nella messa, non celebra l’ultima cena, ma, quello che il Signore, nell’ultima cena, ha istituito e affidato alla Chiesa: la memoria della sua morte sacrificale » (Josef Andreas Jungmann, La Messa nel popolo di Dio, trad. it., Marietti 1974). Con la preghiera di azione di grazie, con le parole sul pane e sul vino, Gesù, il vero e definitivo Agnello Pasquale, anticipa l’evento del suo sacrificio vittorioso e ce lo lascia nel sacramento dell’Eucaristia.