
« Dopo questo, Gesù, sapendo che ormai tutto era compiuto, affinché si compisse la Scrittura, disse: “Ho sete”. Vi era lì un vaso pieno di aceto; posero perciò una spugna, imbevuta di aceto, in cima a una canna e gliela accostarono alla bocca » (Gv 19,28-29).
Che Gesù avesse sete era la cosa più normale del mondo dopo tutto il sangue che aveva perso. Perché però gli evangelisti raccontano con cura questo fatto (Mc 15,36; Mt 27,48; Lc 23,36)? Giovanni è l’unico che ci trasmette questa parola di Gesù: «Ho sete». Si potrebbe pensare che questo è soltanto per mettere in luce ancora di più la sofferenza di Gesù, raccontando come i soldati lo tormentino dandogli da bere acqua e aceto. In realtà non è così: il gesto dei soldati non è un atto di accanimento ma di misericordia. Acqua e aceto era una bevanda – detta “posca” – familiare ai soldati romani, una bevanda molto dissetante e dalle proprietà disinfettanti. La sete di Gesù colpisce per il suo significato simbolico e spirituale. Viene infatti alla mente il salmo 63,2: « O Dio, tu sei il mio Dio, dall’aurora io ti cerco, ha sete di te l’anima mia, desidera te la mia carne in terra arida, assetata, senz’acqua » (Cfr. anche Sal 22,16). Qui però il rapporto è rovesciato: non siamo più noi ad avere sete di Dio, ma è Dio ad avere sete di noi. San Gregorio di Nazianzo ha una formulazione particolarmente efficace: «Ebbe sete che si avesse sete di lui» (Carminum lib. 1, sectio 2, XXXIII [Tetrastichae Sententiae], Sententia 37, v. 145-148, MG 37,938-939). Ogni apostolo di Cristo condivide questa stessa sete: san Giovanni Bosco aveva una scritta nel suo studio, al di sopra della sua scrivania: «Da mihi animas coetera tolle! – Dammi le anime e toglimi pure tutto il resto!» e san Luigi Orione incominciava le sue lettere con la scritta: «Anime e anime!». Dar da bere a Gesù vuol dire fare apostolato e fare apostolato – apostolato vero – vuol dire portare anime a Gesù, il solo che le può veramente dissetare. In fondo di che cosa ha sete Gesù? Dei nostri peccati, la sola cosa che possiamo fare noi, quando agiamo in modo completamente autosufficiente: « Contro di te, contro te solo ho peccato » (Sal 51,6). Donato a lui, il nostro peccato diviene occasione di immensa gioia, perché allora possiamo finalmente dissetarci all’acqua viva del perdono: « Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura: Dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva » (Gv 7,37-38). Dal suo fianco squarciato infatti « uscì sangue e acqua » (Gv 19,34).