« [Cristo Gesù] pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: “Gesù Cristo è Signore!”, a gloria di Dio Padre » (Fil 2, 6-11).
La morte in croce non è una morte qualunque. Ai tempi di Gesù era un supplizio particolarmente umiliante: era la morte dei malfattori. I cristiani prima di rappresentare Cristo in Croce ci hanno messo dei secoli: quando la società ha dimenticato che cosa era la Croce, hanno trovato il coraggio di rappresentare Cristo in Croce. Per noi oggi è una ovvietà, fin troppo ovvia…
Le rappresentazioni realistiche di Gesù appeso alla Croce non fanno la loro apparizione prima del VI secolo inoltrato. Morendo sulla Croce, scegliendo proprio quell’ultimissimo posto Gesù ha meritato di ricevere il nome che è al di sopra di ogni altro nome, cioè il nome impronunciabile ed ineffabile di Dio. Lui era Dio da tutta l’eternità, ma in quel momento ha meritato di essere Dio secondo la natura umana, portando questa natura ad un livello di gloria inaudito, superiore agli angeli.
Scegliere l’ultimo posto vuol dire allora partecipare all’umiltà di Gesù, entrando così nell’intimo della sua stessa vita, perché chi « si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato » (Lc 14,11; 18,14; cfr. Mt 23,12).
Il Santo del giorno: S. Teofilo, vescovo di Cesarea di Palestina