« [In quei giorni, Elia, essendo giunto al monte di Dio, l’Oreb] entrò in una caverna per passarvi la notte, quand’ecco gli fu rivolta la parola del Signore in questi termini: “Che cosa fai qui, Elia?”. Egli rispose: “Sono pieno di zelo per il Signore, Dio degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi cercano di togliermi la vita”. Gli disse: “Esci e férmati sul monte alla presenza del Signore”. Ed ecco che il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento, un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto, un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera. Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna. Ed ecco, venne a lui una voce che gli diceva: “Che cosa fai qui, Elia?”. Egli rispose: “Sono pieno di zelo per il Signore, Dio degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi cercano di togliermi la vita”. Il Signore gli disse: “Su, ritorna sui tuoi passi verso il deserto di Damasco; giunto là, ungerai Cazaèl come re su Aram. Poi ungerai Ieu, figlio di Nimsì, come re su Israele e ungerai Eliseo, figlio di Safat, di Abel-Mecolà, come profeta al tuo posto » (1Re 19,9-16).
Il profeta Elia era sprofondato in una terribile desolazione, perché vedeva tutti i suoi sforzi ridotti a nulla. Nel buio della desolazione desiderava morire, “farla finita”: «Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri » (v. 4). In quel momento gli appare un angelo, che lo invita ripetutamente a mangiare una focaccia cotta su pietre roventi e a bere da un’orcio d’acqua.
« Con la forza di quel cibo camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb » (v. 8) e qui Dio lo prepara ad un incontro con lui che avviene nel « sussurro di una brezza leggera ». Il testo ebraico [ קוֹל דְּמָמָה דַקָּה] alla lettera significa « suono di un silenzio sottile ». Sì perché c’è silenzio e silenzio. C’è un silenzio che tace, buio e oscuro, e un silenzio che parla.
Chi non ha sperimentato di sentirsi terribilmente solo in mezzo a tanta gente? O di provare un silenzio “vuoto” in mezzo a tanto rumore e a tante chiacchiere? Il silenzio di Dio è un silenzio “pieno”, un silenzio intenso. Per coglierlo però bisogna fare silenzio a nostra volta. Mettere da parte le nostre parole, i nostri pensieri. Svuotarci per fare posto alle sue parole silenziose e ai suoi pensieri ineffabili. Perché fare silenzio? Perché, se ci pensiamo bene, non sappiamo che cosa dire. Non sappiamo parlare con Dio, non conosciamo la sua lingua.
Le nostre preghiere sono dei monologhi, sono un “parlarsi addosso”. Se, con umiltà, troviamo la forza e il coraggio di ammetterlo, allora « […] lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza; non sappiamo infatti come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili [στεναγμοῖς ἀλαλήτοις: sospiri inespressi]» (Rm 8,26).
Ascoltare in profondità è un’arte… che dobbiamo chiedere come una grazia. Astenerci dal parlare noi, dall’interrompere, è segno di buona educazione quando qualcuno davanti a noi parla. Siamo educati con Dio? In fondo pregare è soprattutto questo: lasciar parlare Dio.
Il Santo del giorno: Sant’Onofrio