« Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli. E che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: “Abbà! Padre!” [ἀββὰ ὁ πατήρ]. Quindi non sei più schiavo, ma figlio e, se figlio, sei anche erede per grazia di Dio » (Gal 4,4-7).
L’essere costituiti come figli nel Figlio è attestato dal fatto che noi – per mezzo dello Spirito – gridiamo “Abbà”. È soprattutto Joachim Jeremias (1900-1979) ad aver enfatizzato l’importanza di questa parola aramaica che lui considera – giustamente – come un ipsissimum verbum Jesu (la sua tesi sull’origine di abbà è sostenuta in diversi studi a partire dal 1953. In traduzione italiana si può consultare: Abba, Paideia, Brescia 1968; Il messaggio centrale del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 1968).
Questa ipotesi ha suscitato una discussione che non si è ancora spenta. Essa si può tutta condensare in quest’affermazione: Gesù si rivolgeva al Padre come un bambino chiamandolo “papà” o “babbo”. È stato soprattutto James Barr a criticare pesantemente questa impostazione nel suo famoso articolo del 1988: ʿAbbā Isn’t Daddy.
A proposito di questa critica bisogna osservare due cose: la solidità delle prove fornita da Jeremias e – soprattutto – il fatto che bisogna accuratamente distinguere l’origine di una parola dal suo uso. Che אַבָּא non sia da ricondursi etimologicamente ad una parola infantile è certamente possibile, ma non è affatto sicuro e – comunque – non toglie nulla al suo uso che è certamente di carattere estremamente filiale-confidenziale.
Nel mio libro Oralità e magistero ho cercato di far emergere la distinzione tra il carattere “sentimentale” e profondamente metafisico della filiazione (pp. 37-45). Siamo figli nel Figlio e – come Lui e in Lui – siamo infinitamente amati. Che meraviglia!