In quel tempo, Gesù, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidòne, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli. Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!». E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!». (Mc 7, 31-37)
Questo miracolo è ambientato in territorio pagano e prefigura la prossima conversione di quelle genti. I pagani erano privi della rivelazione di Dio per cui erano sordi alla sua parola. Ma attraverso la predicazione dei missionari, avrebbero presto aperto gli orecchi per ascoltare la parola salvifica e sciolto la lingua, per proclamare le lodi del Signore. Gesù mai attuava dei miracoli in modo magico, come schioccando le dita. Prima di compiere l’azione taumaturgica emette un sospiro, proveniente dal cuore di chi comprende le sofferenze del prossimo. Gesù si immedesima nelle sofferenze altrui, vi partecipa attivamente e se ne fa carico: “Egli ha preso le nostre infermità e si è addossato le nostre malattie” (Mt 8, 17).
La parola “Effatà”, è in lingua aramaica, che fu la lingua parlata da Gesù. E’ una delle poche parole – le altre sono Amen e Abbà – che gli studiosi chiamano ipsissima vox, cioèla voce effettiva di Cristo. Sono delle vere reliquie vocali che restano di Lui. Il rilievo dato a questa espressione è chiaro e intellegibile. La Chiesa dei primi tempi aveva ben inteso che si trattava non tanto della sordità fisica quanto di quella spirituale, per cui la parola entrò ben presto nel rituale del battesimo, dove è rimasta fino ai giorni nostri. Subito dopo aver battezzato il bambino, il sacerdote gli tocca gli orecchi e le labbra, dicendo: Effatà, apriti!, intendendo dire: apriti all’ascolto della parola di Dio, alla fede, alla lode, alla vita.
Ciò non toglie che anche la sordità fisica sia presa in considerazione nella Sacra Scrittura da tempi molto antichi. Davanti a un sordo spesso l’ironia esce fluente. Non è affatto l’atteggiamento di Gesù che è molto compassionevole e solidale. Non è certo nelle possibilità umane ridare miracolosamente l’udito ai malati di sordità. Possiamo sicuramente alleviare le loro sofferenze, mantenendo un santo rispetto, usando tutta la delicatezza del caso, quando si ha a che fare con un malato all’udito.
Fare pessimi scherzi o deridere la sordità altrui, deve essere stato un vizio vecchio quanto il mondo, perché nell’Antico Testamento leggiamo questo passo: “Non disprezzerai il sordo, né metterai inciampo davanti al cieco” (Levitico 19, 14). Spesso le persone affette da sordità constatano la loro situazione: “Un sordo non fa neanche tenerezza e compassione, anzi infastidisce, spazientisce, costringe l’interlocutore a ripetere tante volte la stessa frase. Così si crea distanza, isolamento e quel frequente: “Allora, hai capito?” che provoca insicurezza e timidezza. La carità praticabile in tal caso è parlare chiaramente, con tono sostenuto, viso a viso, mostrando il movimento labiale, che è di grande ausilio a chi non può sentire. Ripetere con dolcezza, senza infastidirsi e con tono non calante. Evitare di parlare con altri sottovoce o di strizzar l’occhio alle spalle. In caso di equivoci, non enfatizzarlo provocando ilarità umiliante. Sono delicatezze umane e cristiane che saranno sempre quotidiane. Chi di noi non ha un conoscente sordo? Chi di noi non rischia un forte calo di udito divenendo anziano?