« Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: “Come può costui darci la sua carne da mangiare?”. Gesù disse loro: “In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno”. Gesù disse queste cose, insegnando nella sinagoga a Cafàrnao » (Gv 6,52-59).
Qui il discorso di Gesù raggiunge il suo culmine. Questo ci dà occasione di riflettere su una parola stranissima (alla quale siamo forse troppo abituati) che si trova nel cuore della preghiera del Signore: il “Padre nostro”. Sia in Mt (6,11) che in Luca (11,3) abbiamo: « Dacci oggi [‘ogni giorno’ in Luca] il nostro pane quotidiano ». Il termine che traduciamo con “quotidiano” suona in greco in modo molto ‘strano’: ἐπιούσιος.
Origene sosteneva che è una parola unica, coniata a questo scopo dagli evangelisti. Oggi i filologi – dotati di strumenti prima impensabili – sono in grado di dare pienamente ragione a Origene. Da nessuna parte nella totalità della letteratura greca antica (che oggi sta tutta in un solo CD, il ‘Thesaurus linguae gracae‘) troviamo questa parola: essa è stata veramente ‘fabbricata’ per esprimere un mistero unico e inaudito. Come tradurla?
Semplificando un po’ (ma non troppo) ci sono due traduzioni possibili a seconda delle parole da cui la si fà derivare: ‘per oggi, per il giorno d’oggi’, oppure ‘necessario per l’esistenza’. San Gerolamo ha optato con decisione per questa seconda interpretazione, traducendo in latino con il termine “supersubstantialis” – “soprasostanziale-sopraessenziale”.
Nelle nostre traduzioni si è fatta invece strada la traduzione latina antica (“cotidianus”) che optava per la prima interpretazione. Io penso però che san Gerolamo avesse ragione (anche la Neo-Volgata, che è il testo ufficiale della Chiesa, conserva questa traduzione in Mt 6,11). Qui ci voleva una parola nuova per rendere un significato assolutamente nuovo.
Qui abbiamo il pane che non è necessario solo per nutrirci oggi, per sostenere il nostro corpo, ma per sostentare tutto il nostro essere – anima e corpo – per sempre. Qualcosa che va al di là della “sostanza” ordinaria, come nutrimento della Vita senza limite, la Vita eterna. Questo pane si presenta in modo paradossale. Spesso è adorato all’interno di ostensori preziosissimi, fatti di oro e pietre preziose, molto pesanti. Ma in sé è leggerissimo.
Se andiamo in un negozio di articoli ecclesiastici e chiediamo un’ostia, corriamo il rischio che ce la regalino… Il suo valore venale è quasi nullo. Se mettiamo un’ostia in un luogo in cui sia esposta alle intemperie, sparisce in poco tempo. Bastano poche gocce di pioggia. Una volta consacrata però diventa il pane “sopraessenziale”, la sorgente di una vita divina indistruttibile e interminabile. Una Vita che ha dato origine al mondo… che si nasconde sotto le apparenze di un pane che possiamo adorare e, addirittura, mangiare.
San Fedele da Sigmaringen (Mark Roy) Sacerdote cappuccino, martire