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Il pensiero del giorno

10 Agosto 2021 - Autore: Don Andrea Nizzoli

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà» (Gv 12,24 – 26).


Se ci è successo, nella nostra vita, di comprendere l’amarezza provata da un amico, quando lui si aspettava da noi una certa riconoscenza e, invece, si è sentito rinnegato, allora abbiamo intuito il dinamismo essenziale del Vangelo odierno. Chi ha rinnegato perfidamente il prossimo non si commuove per nulla, la sua sofferenza non lo tocca minimamente. San Giovanni Crisostomo era un oratore vivace e arguto ed arrivava a dire: «impara a non avere compassione del tuo corpo, bastonato, incatenato e sofferente». E’ un modo di dire volutamente esagerato, allo scopo di rendere più brillante il proprio discorso, ma dietro vi è un’importantissima questione di fondo, legata a uno dei misteri più cogenti rivelati dalla Sacra Scrittura: il peccato originale, da cui deriva l’esistenza del male nel mondo e l’impossibilità umana di vincerlo con forze proprie. Dal punto di vista scientifico, il demonio non si può sconfiggere con le sole forze umane. Qualcuno ci salvi! Ecco allora l’indispensabilità di un’azione divina di salvezza, compiuta da Cristo.

Un’eccessiva concentrazione su di sé e sui propri interessi rende l’uomo ipersensibile, timido e fragile, perché è come volersi auto-salvare innanzi a difficoltà assolutamente imprevedibili. La medicina contro questo genere di malattie è rinnegarsi, cioè dimenticarsi, non curarsi di sé e pensare di più a Cristo e al prossimo. Una mamma al capezzale del figlio ammalato dimentica totalmente i suoi acciacchi personali, che sembrano poca cosa al confronto con la sofferenza del ragazzo. Dietro a questo atteggiamento vi è l’accettazione del male come inevitabile, coscienti che esiste un unico grande e salvifico rimedio: accogliere e portare su di sé una porzione di male del mondo (la croce) “adattandola” alla tua spalla. Il male è stato sottoposto dalla Pasqua di Cristo all’ordine della Croce. Anche se il corpo si corrompe e muore, l’anima si rafforza e salva, affidandosi con fede e con gioia sempre a Colui che ogni giorno ci invita a rinnegare la nostra autosufficienza e dice: «costruiamo insieme una casa sulla roccia. Soffieranno i venti e strariperanno i fiumi ma essa non cadrà mai».

Il colmo dell’abnegazione cristiana è la croce, ma la croce è anche il massimo della violenza che un uomo può compiere su un’altra persona. La violenza non può santificare l’uomo, perché la virtù esiste se c’è la libertà. Cristo non ha detto: «sii inchiodato alla croce»!! Queste sono le parole di condanna che pronunciò Pilato. Gesù propone, invece, di prendere la sua propria croce e seguirlo con tutto il cuore. Lui stesso ha voluto bere il calice amaro fino all’ultima goccia, altrimenti sentiva che non avrebbe trafficato tutti i suoi talenti, sarebbe stato un tiepido. Questa libertà di Gesù si manifesta anche di fronte alla violenza del giudizio di Pilato.

Possiamo distinguere nella realtà due tipi di azioni: azioni che vengono imposte dall’esterno: ad esempio il lavoro nella propria azienda; azioni che scegliamo noi di compiere: un bel viaggio. Se prendessimo alla lettera questa distinzione, giungeremmo a considerare virtù solo il viaggio e mai il proprio dovere. La croce di Cristo ci insegna, invece, a trasformare la violenza e l’imposizione grazie ad una fede libera. Tutto è nelle mani del Padre celeste. Giunta la sera, riconosceremo che il nostro calice trabocca di vino saporoso e profumato.


San Lorenzo Diacono e martire

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