(Ap 7, 2 – 4.9 – 14; Sal 23; 1Gv 3, 1 – 3; Mt 5, 1 – 12)
I santi che vengono celebrati nella solennità del 1 novembre non sono solo quelli canonizzati sugli altari, ma è tutta l’immensa schiera della Chiesa trionfante in Paradiso che viene esaltata in un’unica festa. E’ quindi la festa di tutte le anime salve che compongono la Gerusalemme del cielo.
Per i devoti di un santo, è una ricorrenza che non ha nulla di inerente al passato: i santi ci amano esercitando un’influenza sulla nostra vita spirituale e materiale tutta al presente. I “tuoi” santi hanno un rapporto con la tua persona intimo, vivido e privilegiato. Sono coloro che hanno percorso la tua stessa via di perfezione, dicono subito qualcosa a te personalmente e fecondano la tua vita spirituale, dando una maggior comprensione del messaggio cristiano. Questa festa, dunque, non si può limitare ad una celebrazione o ad una pura richiesta di aiuto. San Bernardo di Chiaravalle a riguardo diceva: «Non siamo pigri nell’imitare coloro che siamo felici di celebrare».
Nella prima lettera di Pietro leggiamo: «Ad immagine del Santo che vi ha chiamati, diventati santi anche voi in tutta la vostra condotta; poiché sta scritto: Voi sarete santi, perché io sono santo» (1Pt 1,15 – 16). La motivazione di fondo della santità è chiara fin dall’inizio ed è che Lui, Dio, è santo. La santità è la sintesi, nella Bibbia, di tutti gli attributi di Dio. Nel libro di Isaia, quando il profeta vede Dio, i serafini lo acclamano «Santo, Santo, Santo». Ma nell’Antico Testamento “santo” significava “separato”, perché Dio è “totalmente altro” rispetto a quanto è possibile pensare. Sempre nell’Antico Testamento, per accostarsi a Dio si entra in un luogo, con alcuni oggetti sacri e mediante un rito, con purezza assoluta e osservanza della legge. Nel Nuovo Testamento, invece, si parla di «nazione santa», e lo si dice di tutti i cristiani. Per san Paolo tutti i battezzati sono chiamati alla santità, cioè chiamati ad essere santi e immacolati al cospetto di Dio nella carità (Ef 1,4). La santità non è più un fatto rituale o legale, ma morale; non risiede nelle mani, ma nel cuore; non si decide fuori, ma dentro l’uomo, e si riassume nella carità.
I mediatori della santità di Dio non sono più i luoghi, come il Tempio di Gerusalemme, i riti, gli oggetti e le leggi, ma una persona, Gesù Cristo. Essere santo non consiste tanto nell’essere separato da questo o da quello, quanto in un essere unito a Gesù Cristo. In Gesù Cristo è la santità stessa di Dio che ci raggiunge di persona, non un suo lontano riverbero. Egli è «il Santo di Dio» (Gv 6,69).
Entriamo in contatto con Dio in due modi: per appropriazione e per imitazione. La santità è dono della grazia ed opera di tutta la Trinità. Apparteniamo più a Gesù che a noi stessi: essendo stati “ricomperati” a caro prezzo, ne consegue che, inversamente, la santità di Cristo ci appartiene più della nostra santità. E’ quasi un colpo di audacia. Noi, dunque, possiamo reclamare la Sua santità come nostra, a tutti gli effetti. Un colpo di audacia è anche quello che reclama san Bernardo, quando grida: «Io, quanto mi manca, lo usurpo dal costato di Cristo!». E’ come rapire il Regno dei cieli! E’ un “bel colpo” da ripetere spesso nella nostra vita.
Dopo di che, cioè dopo la fede e i sacramenti, vi è l’imitazione, cioè lo sforzo personale, che si traduce nelle buone opere. Non come mezzo distinto e diverso, ma come l’unico mezzo adeguato per manifestare la fede, traducendola in atto. Nel Nuovo Testamento due verbi si alternano a proposito della santità, uno all’indicativo e uno all’imperativo: «siete santi»; «siate santi». I cristiani sono sia santificati che santificandi. Quando Paolo scrive: «Questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione», è chiaro che intende proprio questa santità, che è frutto di un impegno personale.