« Partiti di là, attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: “Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà”. Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo. Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: “Di che cosa stavate discutendo per la strada?”. Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: “Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti”. E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: “Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato” » (Mc 9,30-37)
Gesù incomincia il suo viaggio a Gerusalemme che culminerà nella sua morte in Croce. « “Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato tolto dal mondo, [Gesù] si diresse decisamente verso Gerusalemme” (Lc 9,51) [cfr. Gv 13,1]. Con questa decisione, indicava che saliva a Gerusalemme pronto a morire. A tre riprese aveva annunziato la sua passione e la sua Risurrezione [cfr. Mc 8,31-33; Mc 9,31-32; Mc 10,32-34]. Dirigendosi verso Gerusalemme dice: “Non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme” (Lc 13,33) » (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 557). A questo punto il suo insegnamento si fà più personalizzato nei confronti degli Apostoli, vorrebbe che capissero che l’attuazione del suo Regno obbedisce ad un progetto molto diverso da quello che loro si immaginano. La prova che la loro immaginazione va in un’altra direzione è data dai loro discorsi. Continuano ad essere mossi dai sentimenti umani di potere e di possesso che li rendono ciechi davanti alla realtà prospettata da Gesù e sordi alle sue parole. Ma il Maestro è molto paziente. Si siede – la posizione abituale di un maestro – e incomincia un insegnamento di cui Marco ci dà solo pochi elementi ma che dovette protrarsi abbastanza a lungo. Un insegnamento profondo ma sempre vivo e ricco di esempi. Prende un bambino, lo abbraccia e lo pone in mezzo. Il bambino è l’immagine della debolezza e dell’inferiorità, il termine ‘παῖς – bambino’ significa anche servo, schiavo. Gli Apostoli cercano l’autorità, una autorità vera, tale da schiacciare i nemici. Gesù non contraddice la loro ricerca, ma la orienta nel giusta e profonda direzione: la vera autorità è servizio umile e disinteressato. Questa è l’Autorità che vince. È l’Autorità che non può essere “posseduta”, ma da cui si può essere posseduti. Che cosa vuol dire credere? Credere è un po’ come obbedire, san Paolo infatti nella lettera ai Romani parla della fede come di una obbedienza: « l’obbedienza della fede » (1,5), dove bisogna fare attenzione al fatto che quel « della fede » è un genitivo “epesegetico”, cioè tale da spiegare il significato del sostantivo. Significa: l’obbedienza che è la fede. Quando credo infatti – a ben vedere – obbedisco. Accetto quanto di mi viene detto non perché capisco che è vero, ma perché mi fido di colui che mi parla. Questa fiducia può essere di varia natura. Può essere di carattere scientifico, come fa uno storico leggendo e accettando, dopo avere esercitato una appropriata critica, un documento. Il documento deve essere vero, non ci sono motivi per metterlo in discussione, per cui lo accetta e, basandosi su documenti di questo tipo costruisce il suo racconto storico. Si fida del documento non per una particolare stima in colui che lo ha redatto, ma perché tutto gli fa pensare che l’autore non abbia voluto o potuto mentire o inventare. L’obbedienza della fede non è di questo tipo: se lo fosse sarebbe come la fede dei demóni che, anch’essi « credono e tremano » (Gc 2,19). Assomiglierebbe solo alla fede, non sarebbe un grazia di Dio ma solo un calcolo umano e certamente non sarebbe il presupposto della salvezza. La fede vera, la fede che salva è di un altro tipo. È anch’essa una « obbedienza », che etimologicamente significa sia in greco che in latino (e quindi anche in italiano) un “ascoltare da sotto”. Implica cioè una sottomissione, il riconoscimento di una superiorità e un ascoltare con riverenza. D’altronde la parola “ascoltare”, può significare anche “obbedire”, come quando una mamma dice al suo bambino: “ascolta”! Di che tipo è allora l’obbedienza della fede? È appunto simile all’obbedienza di un bambino nei confronti dei genitori. Quando un bimbo obbedisce al papà non lo fa perché “calcola” che il papà la sa più lunga di lui e quindi deve avere ragione, ma perché è istintivamente portato a rispettarlo, ad ammirarlo, a considerarlo un modello. Sappiamo come questo oggi sia spesso compromesso dalla crisi della famiglia e da errori e deformazioni educative, così che questo fatto costituisca uno dei problemi più terribili del nostro tempo. Il bambino è spesso deluso e scandalizzato, proprio nella fase in cui avrebbe un bisogno assoluto e totale di questa fiducia che – sola – gli permette di crescere in modo equilibrato. Questa è la parte più difficile della formazione degli Apostoli. Che gli Apostoli non capiscano può sembrare strano a noi che veniamo da duemila anni di cultura cristiana. Ci apparirà meno strano se riflettiamo attentamente sulla nostra vita (l’esame di coscienza ben fatto!) e a come spesso accogliamo le prove e le tribolazioni: “Ci dev’essere qualcosa che non va, è impossibile che Dio permetta questo…”.