« Pregando, non sprecate parole come i pagani: essi credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate. Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. Dacci oggi il nostro pane quotidiano, e rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori, e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male. Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe » (Mt 6,7-15)
Le tre pratiche attorno alle quali si concentra una vita di autentica pietà sono l’elemosina, il digiuno e la preghiera. Qui Gesù insegna ai discepoli a pregare. È la famosa “preghiera del Signore”, detta comunemente “Padre nostro” dalle parole con cui incomincia. Non è “una” preghiera, ma “la” preghiera. I Padri della Chiesa l’hanno spesso commentata mossi dalla convinzione che in questa preghiera c’è tutta l’essenza della preghiera cristiana. Sant’Ignazio di Loyola, per esempio, nei suoi Esercizi, ci insegna a concludere qualunque preghiera con il Padre nostro, per aver ben chiaro che qualunque preghiera noi facciamo è sempre e solo la sottolineatura di qualcosa che è già contenuto nella Preghiera del Signore. Essa è strutturata in sette domande. Sette è il numero della perfezione, di un ciclo concluso. Come dire: tutto quello che possiamo desiderare, cercare, sperare è contenuto qui. Lo stesso ordine delle domande ci aiuta a disporci nell’atteggiamento giusto della preghiera: « Il primo gruppo di domande ci porta verso di lui, a lui: il tuo Nome, il tuo Regno, la tua volontà. È proprio dell’amore pensare innanzi tutto a colui che si ama. In ognuna di queste tre petizioni noi non “ci” nominiamo, ma siamo presi dal “desiderio ardente”, dall'”angoscia” stessa del Figlio diletto per la gloria del Padre suo [cfr. Lc 22,14; Lc 12,50]: “Sia santificato. . . Venga. . . Sia fatta. . . “: queste tre suppliche sono già esaudite nel Sacrificio di Cristo Salvatore, ma sono ora rivolte, nella speranza, verso il compimento finale, in quanto Dio non è ancora tutto in tutti [cfr. 1Cor 15,28] » (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2804). Anche l’inizio, la prima parola è molto significativa, perché se è vero che il Dio di Israele è concepito come il Padre del suo popolo (Es 4,22) era molto raro che ci si indirizzasse a lui come al Padre di un singolo ebreo. Invitando i suoi discepoli a chiamare Dio “Padre”, li introduce ad una intimità insolita con Dio. In aramaico Gesù si rivolge a Dio con la parola, “Abbà”, usata abitualmente dai bambini nei confronti del loro genitore (Mc 14,36; Rm 8,15; Gal 4,6). Oggi diremmo “papà”. Questo termine estremamente confidenziale è unito – paradossalmente – con l’espressione « che sei nei cieli ». Lo stesso Dio che si fa intimo a noi, che si fa vicino e “tenero”, tanto da permetterci di chiamarlo “papà”, è il Dio tre volte santo, che abita nei cieli, cioè in quel luogo, che è un non-luogo, che trascende ogni luogo. “Il Santo – che benedetto sia! – non è in ogni luogo, ma ogni luogo è in lui” (Talmud).